Web, informazione e attivismo. Cambiare le cose è possibile #ijf15

Un’iniziativa a favore o contro qualcosa ha bisogno di supporto per essere minimamente rilevante. Internet è il modo più facile e naturale per aggregare questo consenso: piattaforme come i social network stanno già rivoluzionando il modo in cui le informazioni vengono lette, pensate, interpretate, e la loro condivisione all’interno delle reti sociali di chi le consuma è a un passo dal tasto dal tasto like, dal tasto RT.

Lo stesso vale per le mobilitazioni, le prese di coscienza, le call-to-action: non c'è messaggio online che non possa diventare potenzialmente virale, che non possa circolare liberamente e raggiungere il proprio pubblico di riferimento. Con una differenza, però: la mobilitazione, per essere tale, ha bisogno - appunto - di mobilitare, spingere all'azione, provocare una reazione concreta per non restare una vaga adesione d'intenti, un altro like.

Il dibattito sullo slacktivism - ossia quella deformazione dell'attivismo da click domestico privo di una motivazione spontanea se trasposto nella vita vera - va avanti da anni: le caselle mail e le pagine Internet del mondo sono cariche di petizioni popolari e firmatissime, senza però un concreto rilievo sociale. Dall’altra parte, una forte adesione online non è da considerarsi necessariamente sola e semplice sottoscrizione a distanza, senza riflessi tangibili nella realtà. Può trasformarsi in qualcosa di utile, concreto, quanto meno simbolico.

È il caso per esempio della mobilitazione che si è creata attorno alla questione della net neutrality, una pressione talmente efficace da portare la Federal Communications Commission americana a esprimersi favorevolmente durante il voto del febbraio scorso sulla neutralità della rete - un esito che probabilmente sarebbe stato ben diverso "senza il lavoro instancabile degli attivisti nelle strade e dietro agli schermi", scriverà Jay Cassano su WagingNonViolence.

O ancora: marzo 2012. La madre di Trayvon Martin, il 17enne ucciso qualche giorno prima dal volontario della ronda di quartiere George Zimmerman, lancia su Change.org una petizione per chiedere giustizia per la morte del proprio figlio e una condanna per l’assassino, che ha sempre dichiarato di aver fatto fuoco per legittima difesa. La petizione raggiungerà velocemente 2,2 milioni di firme (fino a quel momento la campagna più popolare nella storia del sito) e Zimmerman, inizialmente rilasciato, verrà poi accusato e arrestato per omicidio di secondo grado.

Se - chiaramente - non è possibile stabilire una netta correlazione fra la petizione online e l’arresto di Zimmerman, di sicuro c’è che la mobilitazione in Rete, insieme al moto di protesta generale, ha supportato la diffusione della storia e aumentato la pressione sulle autorità locali, "costrette" a restare sul caso.

Stesso schema anche per un altro esempio di successo, quello nel quale la mobilitazione contro l’aumento dei costi fissi per una carta di debito della Bank Of America ha portato il Congresso americano, dopo 300mila firme raccolte online dalla petizione lanciata da una babysitter, a riesaminare lo stato della legislazione sulle commissioni bancarie.

Mobilitazione fisica, adesione virtuale, pressione. Change.org cerca di posizionarsi a metà strada fra lo slacktivism e le campagne “fisiche”, quelle faccia a faccia, coi volantini e i cartelli, per adunare più consenso possibile attorno a una causa e trasformarlo in qualcosa di rilevante. Unire ciò che il fondatore e CEO della piattaforma chiama “false divide”, cercare la via di mezzo fra il clicktivism da oziosa adesione casalinga e l'occupazione di una piazza.

Attualmente, Change.org conta quasi 90 milioni di utenti in 196 paesi. È la più grande piattaforma al mondo che permette di lanciare petizioni e incoraggiare - come da nome - il “cambiamento”. Fondata nel 2007, gran parte delle sue petizioni verte su giustizia, ambiente, diritti umani, salute, e attualmente riesce a mantenere il proprio business grazie a petizioni sponsorizzate e partnership con organizzazioni come Amnesty International.

L’obiettivo, spiegava il 24enne deputy campaign director Nathan Elverly, è diventare per le campagne ciò che “Instagram è per le foto e YouTube per i video”, la piattaforma “ufficiale” della mobilitazione, che online si manifesta e diffonde, ma che nella realtà vuole rivedere i propri effetti - il sito dichiara più di 5000 campagne vincenti nel 2014.

Ben Rattray è il fondatore e CEO di Change.org: è considerato uno tra i più importanti teorici dell'intersezione tra tecnologia, innovazione e mutamenti sociali, e testate come Time Magazine, Fortune e Businessweek lo considerano una tra le figure più influenti degli Stati Uniti nel settore dell'imprenditoria sociale. Rattray sarà ospite del Festival Internazionale del Giornalismo, a Perugia dal 15 al 19 aprile.