La carta è morta, facciamocene una ragione

Questa settimana in RoundUp: i dibattiti sul tema dell'innovazione, della nostalgia giornalistica e della cosiddetta disruption; per le testate digitali la vera sfida è diventare davvero "significativi" per i lettori; gli utenti, intanto, sembrano preferire i contenuti leggeri senza ammetterlo, in un panorama online "non-meritocratico".

di Vincenzo Marino

Il continuo dibattito su nostalgia e innovazione

Il tema dell’innovazione è costantemente al centro del dibattito sui media digitali, al punto che ci si può impaludare in un meta-dibattito attorno al senso stesso del termine e alle sue implicazioni.

Nel 2012 un gruppo d’imprenditori guidati da Aaron Kushner - senza alcuna esperienza significativa nel settore editoriale - ha rilevato The Orange County Register, una testata del sud della California, con l’idea d’investire fortemente sul cartaceo ed erigere un paywall piuttosto ‘alto’ sui contenuti online. L’esperimento è fallito qualche settimana fa, provocando il critico dei media Clay Shirky: sul suo blog Shirky addita i reporter che in questi mesi (su tutti Ken Doctor di NiemanLab e Ryan Chittum della Columbia Journalism Review) non avrebbero avuto il coraggio di denunciare l’evidente anacronismo di questa strategia, lasciando intendere a chi cova qualche nostalgia per il passato (il pezzo si intitola proprio «Nostalgia and newspapering») e agli studenti di giornalismo (che farebbero così fatica a liberarsi da immaginari e fantasie ‘cartacee’) che ci sia ancora qualche residua speranza per questo modello, rubando tempo e spazio a strategie per il futuro.

We don’t have much time left to manage the transition away from print. We are statistically closer to the next recession than to the last one 
— Clay Shirky

Ne è nato un ampio dibattito, anche abbastanza ruvido, al quale al momento Doctor ha contribuito specificando la sua posizione (più personale la replica di Chittum, che comunque rimprovera a Shirky una scarsa conoscenza del caso): nessun nostalgismo, sebbene l’industria dei vecchi giornali goda ancora di una certa rispettabile rilevanza dal punto di vista locale sia in termini economici che democratici. Trovate link e opinioni sul dibattito qui, in costante aggiornamento.

L’altro scambio di questi giorni proviene dall’ultimo numero del New Yorker che questa settimana ospita «The disruption machine», un saggio della storica Jill Lepore contro il mito dell’innovazione perpetua e l’esaltazione della parola «disruption», che definisce generalmente l’irruzione di un fenomeno in grado di stravolgere lo status quo ed è stata adottata come buzzword simbolo dell’ineludibile progresso tecnologico («the gospel of innovation»). L’autrice sostanzia la sua linea (qui su Slate trovate una sintesi - critica - del lungo brano) analizzando la teoria del Dilemma dell’Innovatore, contenuta nell’omonimo libro del ’97 del professore della Harward Business School Clayton Christensen. Dal punto di vista giornalistico, Lepore cerca di smontare la teoria di Christensen (secondo la quale, in termini di management strategico, a un certo punto bisogna scegliere se pensare a nuovi prodotti e nuovi clienti o perseverare su una strada finora ritenuta vincente) spiegando che non può essere applicata al giornalismo: non si tratta di un bene commerciale né di un’industria, è la sua critica, e quindi non dovrebbe sottostare alle regole di questa teoria «tipica di un periodo di profonda ansia per il collasso finanziario». Timothy B. Lee su Vox.com ricorda all’autrice che mentre il giornalismo non può essere business per sua natura, i giornali e ciò che i giornalisti producono certamente lo sono, e che l’incapacità di vedere questa divisione senza saperla gestire (coniugare servizio e mercato) è una delle ragioni della profonda crisi attuale. Anche in questo caso il dibattito è in divenire e lo trovate aggiornato qui.

Produrre contenuti che abbiano senso

Sperimentare è fondamentale, specie in un mercato così affollato nel quale chiunque, a basso costo, può entrare in competizione con i legacy media (e si ritorna al Dilemma dell’innovatore). Ma l’innovazione non basta, così come non bastano «marketing o tattiche ‘digitali’» : è quanto scriveva pochi giorni fa l’esperto di new media Thomas Baekdal sulla necessità di trovare un approccio di qualità alla produzione giornalistica che possa apparire necessario e ‘vincente’ per i lettori. Baekdal parte dall’analisi dell’ormai famigerato Innovation Report del New York Times, che mostrava i segni di declino per la testata in termini di visitatori unici nonostante la continua ascesa degli abbonamenti. Il Times continua a definirsi, nel documento, il «miglior giornalismo» senza accorgersi del fatto che i suoi lettori non si sentono in qualche modo coinvolti dalla produzione “di senso” della testata, e corrono a consultare le homepage della concorrenza. Il NYT, spiega l’autore, non pensa ancora in modo ‘digitale’, rendendosi molto spesso una lettura superflua per l’utente: la chiave è proprio offrire un giornalismo “significativo” da contrappore al rullo dei 300 post al giorno scaricati nei cieli di Internet nella speranza di intercettare più lettori possibili.

La necessità di interessare i lettori, senza sprecare il tempo che dedicano alla lettura di un articolo, è il tema al centro del pezzo di Jeff Israely di Worldcrunch per NiemanLab. Israely si concentra sul tipo di contenuto che meglio dovrebbe veicolare in Rete, partendo dalla già citata posizione di svantaggio per gli old media, vessati dalla concorrenza online - soprattutto su Facebook - di contenuti di vario tipo (si parla anche di «graduale convergenza» fra contenuti giornalistici e marketing). Secondo l’autore, il prodotto editoriale tipo dovrebbe collocarsi in una posizione ideale fra le due assi che ne dividono l’intento produttivo: «Axis 1: the aim of entertaining or informing; Axis 2: the aim of saving or sucking the end user’s time» . La continua ricerca dell’attenzione del lettore è da mesi al centro del dibattito giornalistico mondiale, ma Israely intende sottolinearne l’aspetto funzionale: il tempo dedicato a strumenti potenzialmente informativi è cresciuto, è cresciuto il bisogno di informarsi su nuovi device così come l’offerta: riempire pagine non serve a nulla, se sono prive di senso per il lettore.

Ai lettori non piacciono le notizie noiose ma non lo ammettono

I lettori, d’altro canto, continuano a comportarsi in maniera del tutto incoerente, almeno stando alle loro dichiarazioni, al raffronto con le metriche e a questo articolo di Derek Thompson su The Atlantic. Il Reuters Institute ha chiesto a migliaia di persone nel mondo di dire quale tipo di notizia ritenessero più importante. Il risultato è questo

Grafico via TheAtlantic

Le news interne, locali, economiche, politiche e internazionali primeggiano. L’analisi dei dati sui siti, stando alle visite raggiunte dai singoli articoli e i loro temi, dice però altro (come testimoniato anche a fine 2013 dall’elenco delle notizie più lette dell’anno): «Ask readers what they want, and they'll tell you vegetables. Watch them quietly, and they'll mostly eat candy» . A dominare sono chiaramente i temi leggeri, e non si tratta di una tendenza solo o tipicamente online (al massimo, grazie agli strumenti digitali se ne possono verificare i numeri) ma quella che - continua Thompson - in psicologia si chiama fluency, preferire pensieri semplici, evitare le sfumature e le problematizzazioni: in questo senso, continua, «there are two problems with hard news: It’s hard and it’s news» , una «triste verità» con la quale fare i conti.

Ciò che è certo è che in qualche modo i social network, che rappresentano larga parte del traffico in entrata per le testate online, hanno assecondato questo trend: su Twitter - scriveva questa settimana danah boyd sul sito del World Economic Forum - si tratta di lavorare da curator della propria immagine e del proprio lavoro autonomamente, e con gli stessi strumenti degli altri, su una piattaforma che non garantisce affatto a tutti i propri follower (anche se numerosi) la visibilità del contenuto pubblicato (devono essere tutti online, tutti su Twitter, tutti disponibili a leggere, com’è evidente). Facebook ha invece optato per la strada dell’algoritmo, che premia i contenuti che Facebook stesso ritiene validi - tendendo rinforzare «existing biases». In questo senso, secondo l’autrice, i social media avrebbero riscritto il panorama informativo in termini non-meritocratici, portando la produzione online - secondo Matt Saccaro su TheDailyDot - a una formale omologazione stilistica e contenutistica che Choire Sicha di TheAwl ha catturato così