#ijf13, giorno 3 – Mathew Ingram, o del giornalismo senza prima pagina

di Fabio Chiusi

I consigli sono cinque. Per non morire, non lasciarsi travolgere. Se vengono da Mathew Ingram di GigaOm, voce tra le più autorevoli al mondo tra quelle dei cosiddetti «nuovi media», i «vecchi» farebbero bene a drizzare le orecchie. Uno: non più io (giornalista) parlo, voi (lettori) ascoltate, ma meno interazione, meno qualità. Due: senza link sei meno credibile (qualcuno lo dica alle redazioni che ancora considerano un link un problema) – e in più, ringrazi la fonte. Tre: dobbiamo essere più umani, ma non troppo umani. E cioè: «Dobbiamo ammettere che sbagliamo, che abbiamo difetti», ma senza scambiare Twitter per il salotto di casa. Quattro: ora la notizia non ha un inizio e una fine; è processo, non prodotto. Cinque: bisogna fornire al lettore un modo per estrarre l'essenziale da quel flusso ininterrotto di avvenimenti.

Si tratta di «insegnare al pesce a camminare», recita il titolo del suo keynote speech (video). È l'evoluzione della specie, insomma: inutile andare controcorrente. E quando Ingram, rispondendo su quale sia la sua dieta mediatica, rivela: «Non ho una prima pagina», e pensi che per te è lo stesso da tempo, capisci che non si tratta affatto di imperativi calati dall'alto, della replica della liturgia del giornalismo tradizionale sotto mentite spoglie. È, più semplicemente, così che stanno le cose. Piaccia o meno.

E del resto si respira in tutto il suo intervento quello straordinario (perché appunto, fuori dall'ordinario, dalle nostre parti) atteggiamento di umiltà che già aveva mostrato Aron Pilhofer nel suo intervento, due giorni prima. Ingram ci chiede di scendere dalla cattedra, e il primo a farlo è lui – lasciando oltre un'ora alle domande del pubblico. Con cui si confronta a viso aperto, con sincerità – altro punto evidenziato nella presentazione, e tradotto in prassi con una naturalezza che rivela una attitudine all'ascolto rodata giorno dopo giorno.

Sta qui forse la differenza con le parole di Pilhofer. Questa volta, sentire significa includere e aumentare l'apporto del lettore, prima ancora che guardarsi allo specchio, fare autocritica. Perché «molto spesso le persone sanno cose che non sappiamo», dice Ingram. Il che, detto con altre parole, consente di andare oltre la mera confutazione dei sofisti di turno: se «qualcuno là fuori sa ciò che hai bisogno di sapere», la ricerca non è vana.