Harper Reed, il giornalismo ripensato dagli hacker

di Fabio Chiusi

«Sono un hacker», dice Harper Reed. «Sono un programmatore». Eppure è per le lezioni alla politica, al giornalismo, che lo ricordi dopo il keynote speech a Sala dei Notari (video). Reed è il simbolo di come la cultura dei dati sia divenuta centrale in entrambe le professioni. Per la politica, per garantirsi il consenso; per il giornalismo, per spiegarlo. Yes we code, dice l'ex chief technology officer di Obama for America con il suo fare estroverso, pop. E il motto significa apertura, crowdsourcing, big data: le parole d'ordine della nuova politica obamiana, e di certo delle redazioni che cercano di afferrare il contemporaneo. «Il fallimento non è un'opzione», dice ancora. E quanti vorrebbero non lo fosse nemmeno per i nostri giornali in crisi.

Il pubblico ride, ascolta, prende nota. Reed lancia altri segnali al giornalismo che annaspa: «abbiamo preso i migliori» (per «imparare ciò che hanno imparato»); «ci siamo concentrati sull'esperienza dell'utente» (del lettore, nel nostro caso); abbiamo testato («tanto, tanto, tanto»); «abbiamo praticato il fallimento costantemente» (per anticiparlo, e impedirlo). Poi finiscono le metafore, Harper parla direttamente ai giornalisti. «Lavorate!», ammonisce. E il problema, si capisce, non è la quantità, ma la qualità – e attraverso (anche) i dati. Nozione troppo spesso dimenticata, risucchiata dal tempo reale. Che per Reed non pare comportare problemi. Gli elettori si profilano, ma per sapere a che porta bussare, trovare qualcuno che risponda («non un Repubblicano») - non per spiarci o tenerci sotto controllo; Twitter, certo, può avere degli inconvenienti, ma soprattutto «ci costringe alla trasparenza». E del resto, «se non twitto io lo fa qualcun altro», dice Reed. Insomma, «devi fidarti di Twitter».

Ancora, rivolto ai reporter: «metteteci la matematica, dentro». La politica dei dati richiede il giornalismo dei dati, in qualche modo. Quanto al primo errore che si possa commettere, Reed lo vede in se stesso, ma il passaggio al noi è immediato: «non abbiamo saputo ascoltare abbastanza». A prenderla come una lezione, quella di Harper lascia il messaggio che il futuro anche del giornalismo stia nella personalizzazione. Dell'esperienza di lettura, e di conseguenza di scrittura. Perché la base sarebbero i dati, i nostri dati. Tantissimi, riorganizzati e resi informazione. È proprio questa, la sfida: non fermarsi all'idea che open è bello, ma che il bello inizia quando si comprende davvero che significhi, e come si metta in pratica nel farsi stesso del giornale. La sfida sarà non finire sudditi delle preferenze iperdettagliate di chi legge: non scambiare il lettore per consumatore. Usare i dati per reinventarci, far funzionare il giornalismo in modo diverso e migliore. Farci noi stessi hacker.