Amedeo Ricucci: “In Siria per raccontare la guerra, non per parlare di me”

Amedeo Ricucci è tornato da pochi giorni dalla Siria, dove – insieme ad altri colleghi - è stato fermato per undici lunghi giorni dall’organizzazione jihadista Jabhat al-Nusra. “Sono andato in Siria per raccontare la guerra, non per parlare di me” continua a ripetere a chiunque gli chieda di parlare di quell’esperienza. Ricucci era partito per portare la testimonianza di un conflitto atroce e silenzioso, una guerra di cui, dopo più di due anni, si parla troppo poco.

Perché c’è così tanta indifferenza dei mezzi d’informazione per la guerra in Siria?
La logica dei mass media è che se oggi c’è una strage, fa notizia e se ne parla. Ma se domani c’è un’altra strage, della tragedia del giorno prima non si parla più. Esattamente come i negozi cambiano merce in vetrina ogni giorno, anche i media sono oramai soggetti alle regole del business e non a quelle dell’informazione. Questo è l’assurdità dei media oggi che fanno i conti con vendite e share e non con il buon senso.

Si è discusso tanto se quello che è accaduto a lei e ai suoi colleghi fosse un rapimento o un fermo.
Quella del fermo/rapimento è stata una disquisizione filologica stupida in cui si è persa la stampa italiana. Chiunque mastichi un po’ questi argomenti sa che si parla di sequestro solo quando questo viene perpetrato dall’organizzazione e in cambio della liberazione degli ostaggi viene chiesto un riscatto in denaro oppure la liberazione di prigionieri politici, detenuti. Nel nostro caso, quindi, tecnicamente non si è trattato di sequestro ma di fermo perchè Jabhat al-Nusra non ha mai rivendicato il nostro rapimento, né ha chiesto soldi o altro.

Perché siete stati fermati?
Avevano il sospetto che fossimo delle spie. Jabhat al-Nusra è un’organizzazione jihadista legata ad Al Qaeda che ha una diffidenza profonda nei confronti dei giornalisti, tanto più se occidentali. Qualsiasi servizio realizzato su di loro viene visto come una sorta di report per i servizi segreti. Tra l’altro, la zona di Idlib, dove siamo stati fermati, è strategica in questo momento dal punto di vista della dinamica delle operazioni belliche in Siria. Ci sono molte spie civili che operano da una parte e dall’altra, per cui anche su di noi hanno attivato le procedure di sicurezza che attivano normalmente. Il che vuol dire verificare la biografia personale e professionale di ognuno di noi e controllare il materiale che avevamo raccolto. Purtroppo ci sono voluti undici giorni, che per noi sono molti, per loro sono pochissimi.

Avevate filmato qualcosa di importante?
Tutte le immagini che abbiamo raccolto in Siria sono state sequestrate. Non solo: sono state sequestrate anche le attrezzature. Probabilmente avevano paura che nell’hard disk di videocamere, computer o macchine fotografiche potesse restare traccia di quello che avevamo girato. In realtà, noi avevamo inavvertitamente filmato un check point di questa organizzazione dove i miliziani erano a viso scoperto e non con il passamontagna come solitamente viaggiano. E a loro questo non ha fatto molto piacere. Siamo stati comunque trattati con rispetto, non siamo stati picchiati né minacciati. Non ci hanno dato nulla di più ma neanche nulla di meno di quello che offrono ai loro combattenti.

Che rapporto ha la popolazione siriana con i giornalisti? C’è voglia di raccontare o paura?
I Siriani hanno molta paura. Nell’ultimo viaggio, quello di ottobre-novembre, siamo stati in mezzo alla popolazione. Erano loro a ospitarci, ad offrirci da mangiare, ad indicarci dove andare, cosa fare. Si era creato un rapporto tranquillo, fermo restando la terribile paura di essere ripresi dalle telecamere. Molti dei siriani che vivono nel nord del paese hanno metà della famiglia che sta a Damasco, o a Homs o in città controllate dal regime.  Apparire in tv è un rischio perché la propaganda di Assad monitora le televisioni straniere e individua quelli che ritengono i traditori. A noi è capitato di filmare in questo viaggio un campo profughi improvvisato che si era costruito due giorni prima in mezzo alle montagne. Duemila persone che vivevano in mezzo ai boschi senza neanche servizi igienici. Per aiutarli volevamo fare un servizio su di loro. Ci hanno pregato di non farlo, altrimenti il regime avrebbe individuato la zona dove  e avrebbe bombardato l’accampamento. Questo per capire a che punto di assurdità è arrivata la guerra civile: si bombardano anche i campi profughi.

È notizia di questi giorni il presunto utilizzo di armi chimiche da parte di Assad sulla popolazione
Si, noi volevamo andare in Siria addirittura muniti di un contatore geiger proprio perché c’erano giunte diverse voci di attacchi con armi chimiche, bombe al fosforo. Purtroppo non abbiamo avuto la possibilità di verificare se queste notizie se fossero fondate o meno perché ci hanno presi il primo giorno. Anche durante la precedente esperienza siriana, comunque, abbiamo avuto modo di vedere come Assad non si faccia alcuna remora a distruggere il suo paese e uccidere la popolazione civile. Non mi meraviglierei se avesse usato o volesse usare armi chimiche.

Perché la comunità internazionale non interviene?
Penso che il problema sia che la Siria è un paese molto importante dal punto d vista geostrategico. Si trova nel cuore del Medio Oriente e capisco anche le titubanze che possono avere i governi occidentali ad intervenire. In Siria la Russia ha grossi interessi, c’è una base militare importante a Tartus che è l’unica base che i russi hanno nel mediterraneo non la molleranno mai. Quindi, già il veto incrociato di Russia e Cina, per esempio, impedisce all’ONU di intervenire. E questo anche sul piano umanitario. Non dimentichiamoci che in Siria non entra l’UNHCR per i rifugiati, non entra l’UNICEF per i bambini, non entra nessun organismo. Gli aiuti umanitari non possono entrare se non a rischio e pericolo delle organizzazioni che sono presenti e lo fanno in maniera clandestina.

Quando tornerà in Siria?
Io spero al più presto.

Claudia Torrisi
(foto di Giulia Torreggiani)