Viaggio nei Centri di Identificazione e di Espulsione italiani

Le sbarre, le fiamme, i cazzotti e la disperazione. Sono i Centri d’identificazione ed espulsione raccontati dal film documentario “EU 013: l’ultima frontiera”. A realizzarlo Alessio Genovese, reporter e documentarista e Raffaela Cosentino, giornalista freelance. Sessanta minuti d’immagini e testimonianze “sul campo”, che sono state presentate durante l’VIII edizione del Festival internazionale del Giornalismo di Perugia. Una serata organizzata in collaborazione con Amnesty International Gruppo Italia 045, APS il Pettirosso e Monimbò Bottega del Mondo.

“Sono 7 mesi che vivo in questo Centro di accoglienza – racconta un ‘internato’ -. L’unico mio reato è la clandestinità”. La libertà dentro al CIE è un buco tra le sbarre, da cui passano i bicchieri di caffè. Il documentario di Genovese e Cosentino ci restituisce la prospettiva di chi vive questa angoscia, senza alcun filtro. Da Roma a Bari, passando per la sala d’attesa dell’aeroporto di Fiumicino, le immagini scorrono raccontando l’attesa dei “respinti”. “L’UE ha rinchiuso i ricchissimi da una parte e i poveri dall’altra”, spiega uno di loro.

Persone che hanno vissuto in Italia per mesi, anni. Alcuni hanno cominciato un percorso d’integrazione. Magari hanno perso il lavoro, sono rimasti clandestinamente sul territorio. E ora si ritrovano in regime di detenzione amministrativa (senza aver commesso reato penale).

"I CIE sono luoghi fatti per impaurire. Chiunque è assoggettato a una logica di violenza", è stata la testimonianza di Alessandro Genovese, dopo la proiezione al Festival di Perugia. "Abbiamo voluto restituire a queste persone la dignità. Lo abbiamo fatto ascoltandoli". I protagonisti raccontano le loro storie con un italiano colorito da accenti diversi, facendo emergere una parte del loro vissuto nel Bel Paese. "È stato l'unico elemento che ci ha fatto andare al di là delle sbarre. La lingua è una delle poche cose che ci ricorda che questa è una storia italiana".

Nei CIE ogni anno vengono rinchiuse circa 8mila persone, fino a 18 mesi. Il costo complessivo si aggira attorno ai 55 milioni di euro.

"Si utilizza il termine 'trattenuti' - ha spiegato Raffaela Cosentino al Festival del Giornalismo -. In realtà, è una terminologia che fa parte del camuffamento di quelli che possono essere considerati dei moderni lager. Li chiamano 'centri di accoglienza ed espulsione' ma qui le persone vengono semplicemente recluse, creando l’immagine di persone pericolose”.

di Lorenzo Canali