Il trionfo del giornalismo non-profit #ONA14

Byjo6ccIEAAIWpN.jpg largeDati, algoritmi, realtà virtuale, software, casi di studio come i pupazzi di Sesame Street, capaci di resistere al passare del tempo e al cambiare delle generazioni: mentre a Chicago quasi duemila professionisti dell'informazione on line si confrontavano sullo stato dell'arte e gli scenari futuri del giornalismo, i vertici del New York Times si preparavano ad annunciare un nuovo taglio nell'organico (100 posti di lavoro, equivalenti al 7,5 per cento del totale) e la revisione di alcuni esperimenti digitali - in particolare la giovane app NYT Opinion.

Al termine della conferenza gli Online Journalism Awards hanno decretato il trionfo di ProPublica (5 premi, tra cui "general excellence") e del giornalismo non profit, che ormai costituisce una categoria a sé, da affiancare ai cosiddetti "legacy media" e agli "all digital": ciascuno di questi giornalismi cerca la propria strada verso il successo, mentre gli utenti sembrano premiare il giornalismo del quarto tipo, che è quello aggregativo delle piattaforme social, sempre meno neutre e sempre più orientate verso le notizie. (nella foto, la direttrice esecutiva ONA Jane McDonnell insieme a Cookie Monster, star di "Sesame Street" e ospite d'onore della conferenza).

Quando il prodotto sono gli utenti: i tre tipi di giornalismi e l'avanzata del "platform thinking" 

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And the winner is... ProPublica

Partiamo dalla fine. La cerimonia degli Online Journalism Awards, al termine dei tre giorni di conferenza ONA a Chicago, ha avuto il suo "Titanic": è ProPublica, il sito investigativo non profit che si è aggiudicato ben cinque oscar per le proprie inchieste, compreso quello per la "general excellence". Scorrendo l'elenco dei vincitori si trovano numerose altre organizzazioni non a scopo di lucro, fra le quali anche giornali veri e propri come il Texas Tribune. Un po' di gloria anche per l'Europa, con i premi ai norvegesi di VG per la copertura del campionato del mondo di scacchi e all'European Journalism Centre per il lavoro Rebuilding Haiti nella categoria "explanatory journalism".

La premiazione è stata anche l'occasione per un annuncio da parte di Jim Brady, ex presidente ONA: dal prossimo anno verrà istituito un riconoscimento per il giornalismo freelance di guerra in memoria di Jim Foley, il collega assassinato dall'Isis.

Quanti giornalismi ci sono? Almeno tre

Scendendo dal generale verso il particolare, credo che la conferenza ONA abbia sancito una sorta di tripartizione del (modo di pensare e fare) giornalismo, almeno per quanto riguarda lo scenario in lingua inglese, con inevitabili zone grigie.

1. I "legacy" media, che potremmo assimilare al brand New York Times (come termine di paragone).

2. Gli "all digital" media, quelli che oscillano tra Buzzfeed e Mashable.

3. I "non profit" media, cioè ProPublica, le fondazioni, i centri di ricerca universitari.

I legacy media, tra zavorra culturale e innovazione tecnologica.

La notizia è arrivata pochi giorni dopo la conclusione di ONA14. Il New York Times ha messo in cantiere un programma di riduzione dei costi che prevede il taglio di 100 posti di lavoro (il 7,5% dell'organico), la chiusura di NYT Opinion, un esperimento digitale nato pochi mesi fa ("Fail fast, try again") e un cambio di strategia per alcune app, collocate fuori dal paywall. La motivazione dell'azienda è la necessità di "salvaguardare la redditività di lungo termine" del giornale e a onor del vero va detto che nei mesi scorsi lo staff era stato arricchito con assunzioni "digitali", in particolare web producers e video-giornalisti. Il caso del NYT non è isolato: anche il Wall Street Journal e USA Today stanno riducendo gli staff. E tutti stanno cercando di accelerare la transizione da una cultura professionale e una struttura industriale focalizzate sulla stampa verso quelle digitali.

Ma proprio cultura e assetto industriale costituiscono la zavorra che non facilita la ripresa del business. L'esempio è venuto proprio dal panel di ONA14 dedicato al celebre Innovation Report del New York Times, i cui curatori sono saliti sul palco per raccontare il backstage dell'operazione e rispondere alle domande del pubblico. Di quel Report si è già scritto molto, redazioni di tutto il mondo lo hanno letto, analizzato, commentato, forse in parte provato ad applicare. Ma una buona sintesi dello stato dell'arte è la battuta del responsabile per la strategia redazionale del NYT, Tyson Evans, circa l'importanza della prima pagina cartacea come luogo mitico, traguardo per ogni giornalista: "La prima pagina è fantastica - ha detto - ma è ancora meglio una notifica del tuo pezzo sullo smartphone, capace di far vibrare migliaia di gambe in simultanea".

Questo però non sembra essere ancora un trend diffuso tra direttori, capiredattori,opinionisti, inviati e cronisti. L'impressione è che l'Innovation Report, oltre a rappresentare un programma strategico, sia in realtà la cartina tornasole del punto di partenza. Emblematico è anche il dibattito sull'opportunità che il direttore del NYT usi twitter attivamente.

I legacy media cercano nuove strade per salvare il proprio business ma sono frenati da limiti culturali e strutturali. Inoltre, sanno di avere poco tempo a disposizione prima del collasso: sperimentare in queste condizioni è molto difficile. Il rischio, secondo una metafora aeronautica colta dietro le quinte della conferenza, è che la discesa si concluda non con un atterraggio ma con uno stallo fatale.

Pro Tip: il "Minecraft journalism"

Certo, esistono le eccezioni. Ma più che progetti organici, si tratta di salti sperimentali nel futuro. Prendete il Des Moines Register, giornale del gruppo Gannett. Coordinato da Dan Pacheco, docente di innovazione giornalistica alla Syracuse University, il team del DMR ha realizzato un reportage (anche se è assai riduttivo chiamarlo così) per raccontare i passaggi generazionali nella vita rurale dello Iowa. La particolarità del progetto è che è stato realizzato ricorrendo alla realtà virtuale e al 3D.

L'obiettivo, usando le parole del vicepresidente della divisione digitale Gannett, Mitch Gelman, è quello di raggiungere la generazione "Minecraft", cioè quei lettori - in gran parte giovani - abituati a immergersi nell'ambiente virtuale e tridimensionale dei videogiochi, magari indossando i visori come Oculus Rift, strumento necessario a godere in pieno dello storytelling sulle fattorie in Iowa.

La sfida nella sfida è stata proprio quella di occuparsi di un tema che di per sé è a basso contenuto di effetti speciali, per evitare l'effetto "Guerre Stellari" e cercare invece di attirare l'attenzione dell'utente sul contenuto. Ne è uscito un viaggio tra piantagioni, fattorie, capannoni, trattori ultramoderni che porta l'utente al centro della scena: ci si muove avanti e indietro con la tastiera di controllo in un ambiente fedelmente riprodotto in realtà virtuale e quando si vuole approfondire un argomento si clicca su appositi segnali che fanno partire un video tridimensionale, da guardare girando la testa a 360 gradi.

È il giornalismo del futuro? Difficile dirlo, anche perché la diffusione dei supporti visuali è ancora molto ridotta, ma alla Gannett ci credono e sono convinti che il settore sia in rapida evoluzione, tale da poter consentire in un prossimo futuro di realizzare non solo servizi di "explanatory journalism" ma coprire anche le breaking news. Senz'altro si tratta del progetto più innovativo, dal mio punto di vista, tra quelli presentati a Chicago. E l'idea che a realizzarlo sia stata una testata appartenente alla categoria "legacy media" rappresenta un messaggio di speranza.

Gli All Digital, benvenuti nel regno delle metriche.

Il ritornello è noto: la soglia di accesso al mondo dei media è stata abbassata fino a tendenza zero dall'era digitale. Chiunque può costruire un sito (o una app, o un servizio) e diventare in poche mosse produttore e/o distributore di contenuti informativi. Il problema - che ovviamente riguarda anche il business digitale dei legacy media - è quello dei ricavi economici. Ed è ormai un fatto condiviso e acclarato che la miniera nella quale scavare sia quella dei dati. In un mondo che ha abbondanza di offerta, la scarsità è rappresentata dal tempo e dell'attenzione.

La sfida da vincere è duplice: da un lato essere sempre più abili a consegnare il giusto contenuto al giusto utente nel modo giusto nel momento giusto e sul giusto device; dall'altro convincere gli inserzionisti che i clic venduti hanno un reale ritorno di investimento. La formula infallibile non è stata ancora trovata, ma ultimamente si discute - con diversi argomenti a sfavore - intorno al concetto di "attenzione" come unica moneta spendibile, cavallo di battaglia di Tony Haile, CEO di Chartbeat, che ha anche sviluppato un software ad hoc insieme al Financial Times. Qui sotto le slide del "Data State of the Union" che Haile ha presentato a Chicago.

Il rischio, per gli all digital, è che un'impostazione troppo guidata dai dati finisca per andare a scapito della qualità dei contenuti oppure azzeri la funzione di intermediazione e scelta, affidandola in toto ai gusti e ai comportamenti degli utenti. C'è chi prova a uscirne creandosi delle nicchie, chi punta tutto sul veicolo dei social media ai fini dell'engagement, chi pensa che ci sia bisogno di "spiegare bene" per poter tenere alta l'attenzione, chi punta su un'audience globale per fare massa critica, chi fa un mix di tutto ciò.

Gli all digital spesso si rivelano più abili (e agili) dei legacy media nel muoversi tra i contenuti digitali e catturare l'attenzione, consapevoli che "l'utente è il prodotto" (quote da Amy Webb), ma faticano ancora a rendere questo prodotto economicamente sostenibile e qualitativamente eccellente.

Pro Tip: metriche creative per migliorare le performance.

Si fa presto a dire analytics. Visitatori (quali? come calcolarli?), pageviews (ma come vengono generate?), bounce rate, tempo (e se il browser resta aperto mentre tu fai altro?). Fulminante la battuta di Wolfgang Blau, digital strategist del Guardian: "Comscore (una società leader nel mondo nel settore degli analytics) è all'incrocio tra giornalismo e astrologia".

Però si può provare ad avere qualche elemento in più sull'efficacia dei propri contenuti "inventandosi" nuovi sistemi di misurazione. Istruttivo, in tal senso, l'esperimento di Sonya Song della Michigan State University, che utilizza strumenti a portata di chiunque come Google Analytics, Bit.ly e Facebook Insights per tenere traccia di dieci parametri quantitativi e qualitativi.

 (Amy Webb, 10 Tech Trends for Journalists)

I non profit media, giornalismo senza scopo di lucro ma ad alto tasso di qualità

Guardate le inchieste di ProPublica come Segregation Now, pluripremiata a Chicago, pensate agli strumenti che usate abitualmente per i vostri contenuti grazie al lavoro di ricerca e progettazione del Knight Lab. Immaginate che la vostra mission non sia quella del business ma solo il servizio pubblico: è l'ambiente migliore per sviluppare giornalismo di qualità, di profondità, di utilità. E magari, in un circolo virtuoso, di accorgersi che quel giornalismo può avere anche un mercato.

È logico pensare che l'unico futuro per il "vero" giornalismo sia il non profit? Quand'anche - speriamo il più tardi possibile - l'industria delle news dovesse arrivare al capolinea, ci sarà sempre bisogno della funzione del giornalismo nella società. Serviranno benefattori, editori il cui business si svolge in altri settori, al limite organizzazioni di volontariato. Follia? Non so, a me sembra uno scenario plausibile.

Pro Tip: giornalismo strutturato, la capacità di costruire storie partendo dai dati

Difficile dare una definizione di "structured journalism", ma si tratta senz'altro di un modo di svolgere "pubblico servizio" che può coinvolgere tanto il non profit quanto il for profit. Se si parte dai dati (come fanno Homicide Watch, Politifact, Poderopedia), li si organizza in maniera corretta grazie ai metadati e all'architettura del proprio CMS, cioò che se ne ricava sono storie, informazioni utili per i cittadini, archivi, memoria, fact-checking. La corrente dello structured journalism è agli albori, finora ogni esperimento è andato per conto proprio, in maniera più o meno artigianale: l'obiettivo è di creare un luogo di discussione e sviluppo, partendo da un Google group.

Il giornalismo del quarto tipo, i social media e le piattaforme

Una ricerca realizzata in Gran Bretagna e focalizzata sull'informazione locale ha stabilito che, tra le fonti di notizie locali più attendibili e consultate, sta crescendo Facebook. Secondo il Wall Street Journal, invece, gli adulti americani trascorrono in media 21 minuti a testa su Facebook, che corrispondono al 6% della dieta mediatica e al 10% della torta pubblicitaria digitale.

Sono esempi per dire quanto i social media (Facebook in particolare, ma anche Twitter se davvero sta per arrivare l'algoritmo che regolamenta il Newsfeed) si stiano trasformando da piattaforme di servizio neutre - che non producono contenuti originali - in veri e propri media outlet, che decidono cosa mettere sugli scaffali, quando metterlo e come metterlo.

Anche a Chicago si è discusso molto, sul palco e fuori, dell'algoritmo di Facebook e della sua influenza sul traffico e l'engagement per i siti di news. Ma quelli di Menlo Park si difendono dicendo che al centro dei loro interessi c'è l'esperienza dell'utente e la sua soddisfazione: chi produce contenuti di qualità, interessanti per il proprio utente, non deve temere nulla, anzi risulterà premiato dall'algoritmo. Chi fa spamming, click-bait, chi cerca la viralità a ogni costo, viene punito.

Ma chi ci assicura che è e sarà sempre così? Il potere degli algoritmi come controllori sull'informazione è un tema che sta diventando cruciale. Se ne è discusso anche a Chicago e la parola chiave è stata "trasparenza".

La trasformazione delle piattaforme social in media companies autorizza però a ricondurre il ragionamento a lì dove era partito, cioè i tagli di personale al New York Times. Quando una redazione riduce il proprio staff, quali sono le figure a cui si può rinunciare e quali invece quelle indispensabili?

La lezione dei social (e di altre piattaforme di servizio in settori diversi dall'informazione, come Uber o Amazon) è che non è necessario produrre contenuti per essere leader nel settore dell'informazione. L'importante è che i contenuti ci siano - e la loro abbondanza, nell'era digitale, è una delle poche certezze - poi il vero salto di qualità è la capacità di trovarli, scremarli, distribuirli, consegnarli a domicilio e interagire con l'utente sulla base di quei contenuti.

Ecco perché, nelle redazioni, è sempre più importante immettere alta capacità tecnologica (giornalisti programmatori, analisti dei dati, specialisti per ciascun tipo di device, curatori, social media editor) a scapito delle competenze generaliste (non basta più "saper scrivere"). Ma se si tagliano i costi fissi, è l'obiezione, sarà sempre più difficile produrre giornalismo di qualità, d'inchiesta, di servizio pubblico. Vero, ma quel giornalismo può esistere anche all'esterno delle redazioni, l'importante è intercettarlo, rifornirsene, commissionarlo a qualcuno di nostra fiducia.

Citando ancora una volta Amy Webb: "Giornali e siti sono essi stessi un prodotto. Nei social network gli utenti sono il prodotto. Amazon, Apple, Uber, sono piattaforme che creano valore per gli altri".

Ci si vede a #ONA15, Los Angeles. Ma anche a #IJF15, Perugia (15-19 aprile).