Il whistleblowing e la gestione professionale delle fonti riservate

Perugia, 16 Aprile 2015
10.30, Sala Perugino, Hotel Brufani
Con Alessandro Rodolfi, Università degli studi di Milano

Si apre con un’analisi della parola “whistleblower” l’incontro tenutosi oggi presso la Sala Perugino dell’Hotel Brufani, dal titolo “Il whistleblowing e la gestione professionale delle fonti riservate”. Parola in italiano tradotta nei più svariati modi - da “delatore” e “informatore” a “talpa” e “spia” - le cui connotazioni, nella nostra lingua, “sono al massimo neutre e mai di carattere positivo, come invece dovrebbero essere,” nota Alessandro Ridolfi, dell’Università degli Studi di Milano, che dell’incontro è relatore.

Siamo abituati, per retaggio culturale, a considerare la figura del “whistleblower” in questo modo; “chi fa la spia non è figlio di Maria,” recita un detto piuttosto noto, che chiunque, da bambino, ha sentito almeno una volta. E ciò è quanto mai sbagliato, nota Ridolfi, perché, contrapponendosi ad un genere di “soffiate” mosse principalmente da interessi privati, per scopi che vanno a beneficio del singolo, “il whistleblower è invece sempre veicolato dall’interesse pubblico”.

Il “whistleblowing” non è nulla di nuovo, e alcuni degli esempi più noti - le rivelazioni di “Wikileaks”, di Julian Assange, nel 2007, o quelle di Edward Snowden nel 2013 - ne hanno sottolineato la grande importanza. Un’importanza che, conseguentemente, dovrebbe tutelare gli informatori, mettere ciascun “whistleblower” in condizioni di assoluta sicurezza, garantendo riservatezza alla sua segnalazione. Perché, nota Ridolfi, “non è detto che tutte le persone siano disposte ad esporsi completamente, al 100%”, o a farsi carico delle conseguenze che, sul piano personale, il loro gesto possa comportare loro.

Da una ricerca dell’Association  of Certified Fraud Examiners del 2010 è emerso un quadro interno del mondo del “whistleblowing”, i cui punti principali sono presentati da Ridolfi al pubblico presente all’incontro. Dai dati raccolti emerge in primo luogo che, tra gli autori delle soffiate, l’83% segnala almeno 2 volte, di solito internamente - aziende e compagnia potrebbero, perciò, applicare sin da subito procedure correttive a livello interno, prima ancora che l’accaduto diventi di dominio pubblico, così da non incorrere in danni significativi alla loro reputazione pubblica. Per quanto riguarda, poi, la situazione seguente all’invio di una segnalazione, il 74% rivela che a seguito della segnalazione non si fa nulla - e ciò è estremamente demotivante, viste le tantissime possibili ripercussioni a cui ciascun whistleblower va incontro con il proprio gesto. Il 60% afferma che non si riceve alcuna risposta (né negativa né positiva); anche quando, invece, accade il contrario, il risultato è un’azione formale (disciplinare o che implichi una retrocessione) ai danni del whistleblower. Infine, sempre secondo la ricerca, i dipendenti assunti più recentemente sono i più propensi alle segnalazioni (il 39%).

Sul tema della protezione delle fonti si è discusso durante il G20 svoltosi a Brisbane lo scorso settembre, che in merito ha emesso un piano d’azione (il “G20 Anti-corruption Action plan Protection of Whistleblowers”) volto a stabilire tutta una serie di normative per la tutela degli informatori. Piano che, quanto mai prima, mette in luce le falle del sistema normativo italiano in questo campo, in primis nel settore privato.

E’ L’A.N.AC. (Autorità Nazionale AntiCorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche) che in Italia si occupa di ricevere le segnalazioni degli informatori; ma lo fa utilizzando un indirizzo email, spiega Ridolfi, privo di qualsiasi tecnologia volta a garantirne la riservatezza. Come in una cartolina, di conseguenza, potenzialmente chiunque potrebbe leggerne il contenuto.
In ambito giornalistico, l’ Art.2, così come la Carta dei doveri del giornalista, stabiliscono il dovere di rispettare il segreto professionale delle fonti.

“Siamo tutti possibilmente sottoposti a intercettazione”: questo il messaggio che chiude l’incontro, introducendo alcune delle tematiche di “Citizenfour”, documentario di Laura Poitras su Edward Snowden, presentato al Festival del Giornalismo di Perugia Sabato 18 Aprile. “La paranoia, nella sicurezza informatica, è una virtù,” dice Snowden in una scena del film, e piccole accortezze - tra cui l’uso di software come TOR o Securedrop, open-source che, basandosi sul rimbalzo della comunicazione su dei nodi cifrati, garantiscono all’utente che niente di quanto scrive sia poi riconducibile al proprio computer - potrebbero rivelarsi di grande impatto.

Silvia Maresca