La crisi dei rifugiati: in che modo la televisione può contribuire a comprenderla meglio?

La televisione, nella grande famiglia dei mass media, è probabilmente il mezzo di maggiore impatto nell’opinione pubblica, divisa solo da uno schermo sempre più sottile da storie, interviste, immagini, realtà molto lontane. Come può concorrere uno strumento così potente a una migliore comprensione dell’esodo globale che ha ormai caratterizzato la nostra quotidianità?

Alla base della narrazione di queste notizie rimane, come sostiene Andrea Menapace, “la dialettica dati-storia personale”: Open Migration, progetto di storytelling da lui presentato alla Sala dei Notari, nasce da questa lotta perpetua. Gli interventi di Corrado Formigli, Francesca Paci e Barbara Serra, partendo dal giusto utilizzo dei dati, hanno fornito risposte e interessanti punti di riflessione.

Il numero “dice tutto e dice niente”: gran parte delle notizie lanciate dai governi o dai media presentano sì dati, ma nient’altro che stime, previsioni sfruttate eccessivamente dalle testate. Spesso, infatti, il giornalismo e la televisione in Italia tendono a presentare una superficialità informativa, così da lucrare grazie a un meccanismo quasi ansiogeno, come sostengono i più scettici, e consegnando al proprio pubblico delle statistiche prive di un contesto vero e proprio. Questo vizio informativo deriva, molto frequentemente, da quanto sia difficile raccontare questo fenomeno di massa.

L’audience a cui ci si rivolge è, per la maggior parte, schierata, sia per un carattere quasi “naturale” dell’essere umano - la paura spontanea per l’estraneo -, ma anche per una forte “demonizzazione” che si è fatta del mondo arabo.

Formigli ha voluto quindi sottolineare, in questo ambito, l’importanza del linguaggio. “Islamisti” al posto di “islamici” o “irregolare” invece di “illegale” possono sembrare dettagli, eppure hanno la potenzialità di fare la differenza nella comunicazione di eventi così delicati.

Ogni giornalista, inoltre, dovrebbe avere il diritto di mostrare al mondo ciò di cui vuole dare notizia, cercando di evitare il continuo rischio di cadere nella strumentalizzazione. Testimoniare con le immagini, infatti, può indirizzare, anche in modo molto forte, grandi personalità politiche: la storia di Aylan, ad esempio, ha rappresentato un forte colpo per i leader europei xenofobi e ha fatto cambiare idea, tra i tanti, ad Angela Merkel.
Una crisi senza precedenti comporta la necessità di essere raccontata con un’impronta internazionale, per combattere il fenomeno del razzismo e per sensibilizzare l’opinione pubblica. Gran parte dei profughi sono parte della media-alta borghesia, sono professionisti, esperti, intellettuali. In molti hanno famiglia, rischiano la propria vita e quella dei loro figli per fuggire da una realtà che rende preferibile la morte in mare, o la fame e la sporcizia delle infinite attese. Non sono, come gridano in molti, solo stupratori, ladri e assassini, e i confini non sono muri: “lines are not walls”.

Lorenzo Tobia