C’è un filo rosso che unisce la legge sull’editoria del 2001 alle parole del presidente dell’Antitrust Pitruzzella quindici anni dopo: l’idea che la Rete rappresenti una minaccia. Dall’istituzione del ROC nel 2007 fino ad oggi, si è assistito a una strisciante retorica da parte dei dirigenti politici, spesso ospiti sulla carta stampata e in trasmissioni televisive, che addita il web come luogo di ”prostituzione e auto distruttività”, “aggravante” per la mancanza di sicurezza dei cittadini; dal famigerato emendamento D’Alia , i j’accuse di Gabriella Carlucci, Giorgia Meloni, Ignazio La Russa, Angelino Alfano, e poi Laura Boldrini, il ministro Andrea Orlando in tempi più recenti, passando da lunghe serie di disegni di legge sulle intercettazioni che hanno scatenato contro-manifestazioni con tanto di bavaglio riverberate nel resto del mondo: l’Italia è un paese laboratorio di discussioni colpevoliste a proposito di Internet già prima dei social network. Poi è arrivata la post-verità, un termine che sembra aver convinto la classe dirigente ad accelerare: bisogna metter mano con un intervento pubblico alla “eccessiva libertà” con la quale la gente comune condivide contenuti, si informa, finisce per credere alle bufale che circolano in questi habitat online e che condizionerebbe il corretto svolgersi democratico. Ma è davvero così? E sono migliori le democrazie a basso rumore di fondo di Internet? Ma soprattutto: fra tutte queste proposte ce n’è qualcuna davvero applicabile?

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