Collateral Damage

Collateral Damage (danni collaterali) è una mostra collettiva, a cura di Paul Lowe e Harry Hardie, con immagini di Simon Norfolk, Tim Hetherington, Zijah Gafic, Paul Lowe, Edmund Clark, Lisa Barnard, Ashley Gilbertson, Adam Broomberg e Oliver Chanarin, Mishka Henner.

Le immagini di atrocità sono profondamente problematiche, in quanto potenzialmente creano una tensione tra forma e contenuto; esse sono spesso accusate di ri-vittimizzazione, estetizzazione della sofferenza, del dolore e dello sfruttamento. In alternativa, dunque, esiste un enorme potenziale di immagini associate ad atrocità che non rappresentano il vero e proprio atto di violenza o la vittima vera e propria, ma piuttosto rappresentano le circostanze intorno a cui tale atto si è verificato. In tali immagini l’assenza di violenza visibile conduce l’osservatore ad un impegno immaginativo per comprendere la natura dell’atrocità, e la natura di chi lo perpetra. Nell’ esplorazione di questa assenza, come nella “banalità del male” di Hannah Arendt  (1963), si evince come i luoghi in cui avvengono atrocità sono spesso anonimi, quotidiani e banali, così come superficialmente possono apparirlo le persone che le commettono, anche se le loro motivazioni e logiche interne sono molto più complesse di quelle della semplice esecuzione degli ordini. La fotografia, con il suo processo ottico-meccanico, è puntuale nel registrare i fatti banali di una scena, e invitando lo spettatore a scorrere l’immagine alla ricerca di piccoli dettagli, genera spesso una tensione tra l’ordinario e la conoscenza che ha il pubblico del significato potenziale dell’immagine, ottenuta attraverso una didascalia. Questa strategia dell’estetica del banale è diventata pratica comune nella fotografia contemporanea, tuttavia, l’idea che l’immagine che appare superficialmente di una scena o di una persona a prima vista ordinaria, e in cui lo spettatore scopre poi esserne contenuta un’altra, più profonda, di più creativa lettura, rimane uno dei metodi più efficaci.

La copertura mediatica di conflitti, catastrofi e della sofferenza umana è piena di problemi etici, e il rischio di vittimizzazione o di sfruttamento del disagio del soggetto è reale e presente. Anche se tali affermazioni sono discutibili, come alternativa alla violenza di immagini crude è emerso un approccio fotografico documentaristico che si concentra  sulle tracce della guerra, piuttosto che sugli effetti diretti che essa provoca sul corpo umano. I fotografi dunque, rivolgono la loro attenzione ai paesaggi di guerra, agli oggetti e ai detriti che essa produce. Fotografando queste ‘nature morte’ si occupano contemporaneamente di complesse questioni sull’etica della rappresentazione, e dell’apertura di uno spazio immaginativo, in cui lo spettatore è invitato ad impegnarsi ed interagire. Essi sperimentano inoltre mezzi alternativi per la diffusione del loro lavoro, compresi i libri, le mostre e Internet. Sfruttando la presenza “dell’assenza” di oggetti e luoghi, offrono un percorso alternativo e potente per una reale documentazione della violenza.