Aaron Swartz, l’idealista di Internet che voleva cambiare il mondo

di Fabio Chiusi
foto di Tommaso Tani

Nel 2000 Aaron Swartz, si legge in ‘The Idealist’ di Justin Peters, lancia un blog chiamato ‘Schoolyard Subversion’. È l’estate della sua seconda superiore, e i toni sono da ultimatum: “È tempo di cambiare. La ribellione è alle porte”.

Il giovane programmatore e attivista, all’epoca quattordicenne, ce l’ha con la sua scuola, che “non funziona”; peggio, è l’intero sistema scolastico a venire dipinto come una distopia fatta di obbedienza e lavaggi del cervello.

Nell’ambientazione antiutopica Swartz, con l’usuale, sfrontata vis polemica, decide perciò di ricoprire il ruolo del leader ribelle. Il bersaglio? Una istituzione piena di imperativi orwelliani mascherati da insegnamento: “Smetti di pensare, sfidare, fare domande”, scrive. La distopia, dice tra le righe Swartz, è non esercitare lo spirito critico perché siamo programmati per non farlo.

Un anno più tardi, Aaron fa un sogno. Questa volta, ad apparire è la visione di un’utopia: la sua. Swartz è in un loft moderno, circondato degli amici di Internet, di hacker, programmatori e attivisti entusiasti della rete; tutti insieme stanno lavorando a un progetto per cambiare il mondo. Sono un team senza gerarchie, in cui ciascuno impara dall’altro, ciascuno impara tutto il tempo.

La distanza tra incubo e desiderio, in Swartz, è anche la misura che separa due mondi. Il primo, l’incubo, è quello che con una certa approssimazione potremmo definire “analogico”. Il mondo delle gerarchie, in cui la conoscenza è affare privato di chi può permettersela, l’insegnamento un’ascia che si scaglia dall’alto verso il basso, al collo, diretta dalla violenza dei programmi tutti uguali e uniformanti decisi al colmo dell’impugnatura dal boia, e che si trasmette giù fino ai corpi degli alunni, alle coscienze critiche di chiunque voglia imparare.

Quelle teste, direbbe un rivoluzionario come Swartz, hanno rotolato per troppo tempo.

Ma senza una rivoluzione continueranno a cadere - ignoranti, mute. Ed ecco apparire il sogno, che ha tutte le fattezze di ciò che chiamiamo “digitale”. Nella stanza ultraconnessa di Aaron ci sono amici in carne e ossa e non, legami forti e deboli, ma insieme una cooperazione paritaria, una partecipazione volontaria e diretta a un fine benefico, filantropico - migliorare la tua vita, e quella di tutti - simile a quella che oggi ci è familiare perché contenuta in sostanzialmente ogni motto aziendale della Silicon Valley.

Nella stanza di Aaron non ci sono “superiori” - e quindi “inferiori”; e nessuno tiene in ostaggio la conoscenza, che deve sempre scorrere libera, gratuita, per il bene di tutti. Senza, si ritorna all’obbedienza cieca, all’assenza di domande, alle teste che si limitano ad approvare - o rotolare, staccate di netto dalle resistenze dello status quo. Un moloch immutabile a cui Swartz, non a caso, oppone la sua convinzione personale di poter cambiare sempre, di poter cambiare tutto - se necessario.

Il problema centrale in tutta la - triste, terribile - vicenda di Swartz è forse questo, suggerisce Peters: che la realtà non funziona come Internet. E che dunque le forze controrivoluzionarie, i poteri stabiliti, possono fermare qualunque tentativo di cambiamento.

Per Aaron è una questione delicatissima, naturalmente, ma anche contraddittoria. Da un lato, c’è l’insensatezza delle sua persecuzione giudiziaria, i 95 anni di carcere prospettati - insieme a sanzioni milionarie e umilianti, al silenzio ingiustificabile del MIT - per il solo avere prelevato troppi articoli accademici dagli archivi di JSTOR; ma dall’altro c’è la battaglia impossibile contro i detentori del copyright e le loro leggi-fantoccio, SOPA e PIPA, invece vinta. Il sistema reagisce, ma Swartz sa di potere colpirlo al cuore.

Eppure il dissidio è cruciale. Scrive Peters in uno dei passaggi più profondi e sinceri: “Per tutta la sua vita, la gran parte dei fallimenti e dei dilemmi sono derivati dall’incapacità di Swartz di trasportare queste dinamiche (di Internet, ndr) nel mondo reale. Le istituzioni da cui è scappato, le scorciatoie che ha preso: erano tutte il risultato di quella fondamentale differenza tra mondo reale e Internet”. Con conseguenze concretissime. “Liceo e università erano di gran lunga troppo gerarchiche”, annota Peters, “le ha lasciate. Silicon Valley non ha offerto che lo stesso. Sistemi che avrebbero dovuto dare potere agli utenti non facevano che l’opposto”.

“Qui sta l’intoppo”, conclude l’autore di ‘The Idealist’, libro rigoroso e insieme accorato, lettura indispensabile per chiunque voglia comprendere le radici di questa terribile schizofrenia della società contemporanea: “nel mondo reale, buona parte delle organizzazioni non continua a imparare e migliorarsi - si impostano i parametri, e li si mantiene”.

Così non stupisce che il diritto d’autore funzioni ancora non solo come se non esistessero Spotify e Deezer, ma nemmeno fosse mai esistito Napster: una volta privatizzata la conoscenza, una volta fattala mercato, bisogna continuare a spremerla fino all’ultimo centesimo. E chiunque si oppone va travolto.

Tornare sul pensiero e le convinzioni di Swartz, a tre anni dal suo suicidio, è quindi un gesto di resistenza; un’occasione per ragionare sulla nascita del movimento che invece desiderava proprio quell’impossibile opposto. Utopisti, certo, ma pronti a lottare, non disarmati perché tanto la tecnologia non può che prevalere, ed essere buona; per cambiare il mondo servono i fatti, serve l’attivismo - e serve sia fatto bene, come testimoniano le infinite letture organizzative e manageriali dello Swartz che si interroga su come massimizzare l’efficienza delle mobilitazioni online.

È una forma adulta di ribellione, che viene da una tradizione lunga e nobile, per quanto permeata di utopia. C’è chi, come Michael Hart, riesce a digitalizzare 37 mila tra libri e documenti storici per renderli davvero di pubblico dominio - e partendo dalle tecnologie di copiatura disponibili nel 1971. Ci sono gli antenati di Wikipedia e degli attuali serbatoi online dello scibile umano, dal ‘Memex’ di Vannevar Bush, un primo tentativo di macchina predittiva oltre che di catalogo del sapere, al Project Intrex durante la Guerra Fredda, che avrebbe dovuto aiutare gli scienziati USA a battere gli omologhi sovietici, fino a Project Gutenberg e a Info network, del giovanissimo Aaron.

Di quell’utopia Swartz si nutre, ma non in modo ingenuo. Per Hart gli ebook avrebbero cambiato il mondo, al punto di prefigurare la possibilità di “un nuovo Rinascimento” e “abbattere le barriere dell’ignoranza e dell’analfabetismo”. Di nuovo, l’unico problema è ciò che di reale si oppone al “digitale”: “Michael Hart”, diceva di se stesso, “sta cercando di cambiare la natura umana. Dice che la natura umana è tutto ciò che sta impedendo a Internet di salvare il mondo”. Per Swartz tutto questo si traduce in un ben più laico “it’s up to you!”: sta a voi, cioè a noi tutti, agire affinché il potenziale rivoluzionario delle tecnologie di rete si traduca in più democrazia, conoscenza, uguaglianza, opportunità, benessere - e non l’esatto opposto.

Ma è significativo osservare come i dettami della rivoluzione della cultura libera siano proprio quelli di cui si servono i colossi della Silicon Valley per proseguire la loro opera di colonizzazione del mondo (analogico e digitale), nella loro propaganda aziendale. Aiuta a comprendere quanto sia meschina quella propaganda, quanto si nutra di sogni e ideali e sforzi reali, di comunità intere di persone che hanno messo in rete le loro intelligenze con il solo fine di creare davvero un’applicazione, un protocollo, una piattaforma per rendere un po’ più lieve - e intelligente, non “smart” - il passaggio su questa terra.

Swartz, per esempio, credeva fortemente nella tecnologia al servizio dell’umano. Voleva, appunto, cambiasse le vite, individuali e di tutti: “Voglio salvare il mondo”, scriveva, dettagliandone perfino le istruzioni. Non c’è colosso di Silicon Valley che non dica altrettanto, spesso usando proprio la retorica dell’empowerment degli utenti che Peters vede all’origine del senso di tradimento che covava in Aaron.

Ancora, come un qualunque pensatore vinto dal “digitale”, riteneva che l’efficienza fosse il metodo, e l’utilitarismo la guida morale - la stessa che potrebbe avere un’auto di Google posta di fronte al classico dilemma tra l’uccidere uno per salvare molti, e non uccidere nessuno ma lasciar morire quei molti.

Aaron poi aveva un culto della “condivisione”, al punto di dire - nel famoso  Guerrilla Open Access Manifesto - che non è un crimine, ma un “imperativo morale”. E anche lui parlava, come Mark Zuckerberg, di “connettere il mondo” - pur se con un senso ben diverso, opponendosi ai “nemici della libertà di connettersi”.

C’è chi, come Alec Ross, ha paragonato la rete a Che Guevara: Swartz ne era di certo un guerrigliero. Cambiarsi grazie alle tecnologie? Aaron amava sperimentare con il life-hacking, così da essere in grado di mettere in questione ogni suo pregiudizio e anomalia - o quasi. E quando si oppone alla guerra ai pirati digitali, Swartz usa un argomento analogo a quello adoperato da Zuckerberg per portare Internet - .org - in India: “Viviamo in democrazia. Se le persone vogliono condividere files, la legge dovrebbe cambiare per consentirglielo”.

Soprattutto, colpisce leggendo le pagine di Peters la fede incrollabile di questo ragazzo nella ragione, in una razionalità che è quella dell’homo economicus, più che dell’uomo in carne e ossa. Scrive Peters che, prima di morire, Swartz stava progettando di costruire sistemi intelligenti per consentire agli utenti e cittadini di combattere gli interessi costituiti. Una sorta di algoritmo per l’attivismo digitale che “incoraggi masse di persone a identificare le battaglie e iniziare campagne”, nelle parole del co-progettista Sam McLean.

Swartz ci aveva già lavorato a Thoughtworks, con uno strumento che includeva funzioni di statistica bayesiana per migliorare le abilità degli attivisti nel “raggiungere e organizzare” il consenso intorno alle loro cause.

È in queste occasioni che si comprende ciò che animava davvero Swartz. Infastidito dall’inefficienza delle no profit esistenti, si potrebbe dire - ricorrendo alla trama de ‘Il cavaliere oscuro’, finemente analizzata dallo stesso Aaron - che devono smetterla di comportarsi come Batman e Harvey Dent, e fare come il Joker. Non più usare la legge, o mettere in primo piano ciò che è ritenuto emotivamente accettabile: il politicamente corretto è corretto, ma perdente.

Ciò che va fatto è approcciare i singoli problemi dal punto di vista razionale, dice Swartz, in modo analitico e senza concedere nulla a emozioni e preconcetti. Una volta trovato l’ottimo, come in un testo di microeconomia, bisogna semplicemente adoperarsi per il realizzarsi dell’equazione, indipendentemente da quanto sembri folle. È il Joker l’homo economicus, il perfetto conoscitore della teoria dei giochi - che infatti “funziona”.

E c’è da giurare che questa riedizione della disobbedienza civile sotto forma di “permissionless innovation” piacerebbe eccome, in Silicon Valley. Aaron, che si era definito esplicitamente “capitalista”, aveva poi sviluppato un odio profondo per tutto quanto puzzasse di affarismo, di business, di compromesso su qualunque diritto o libertà in rete. Eppure quella che oggi sempre più si delinea come una vera e propria “ideologia” della Valley sembra ricalcare, scimmiottandole, gran parte delle parole di Swartz e della tradizione che rappresenta.

Che sia ideologia e non realtà, propaganda e non desiderio genuino di diffondere sapere, è chiaro se si considera che quei principi, fattisi mantra aziendali, non hanno portato in auge la “free culture” ma il suo opposto: sistemi proprietari chiusi invece che open source; servizi gratis sì, ma pagati con le proprie vite e i propri dati; colossi miliardari che concentrano potere e capacità  di influenza politica ed economica, più che gruppi coordinati di lavoro, antigerarchici, dal basso.

Gli hacker, i data scientist, gli ingegneri informatici che dovevano lavorare per cambiare il mondo si sono mutati in architetti di un universo fatto di monopoli, divieti, censure, sorveglianza, profilazioni, tracciamento, esperimenti a nostra insaputa sulle reazioni emotive e gli affetti personali, manipolazioni del consenso politico, propaganda visibile e invisibile.

Swartz, che lo aveva intravisto come molti altri già prima di Edward Snowden, lo detestava, e combatteva. Per questo non c’è nessuna ingenuità nel suo approccio alle possibilità di cambiamento sociale della rete: aveva compreso che senza un intervento attivo delle persone, di ogni persona, la rete sarebbe finita nelle mani di pochi. Non i soliti, ma altri perfetti sostituti. Come nel ‘Processo’ di Franz Kafka, che Swartz aveva letto e recensito con una frase lapidaria, quasi un testamento: “Non è finzione, ma un documentario”.

'The Idealist. Aaron Swartz and the Rise of Free Culture on the Internet', Justin Peters, Simon and Schuster, pp. 352