Charlie Hebdo, i media e le responsabilità giornalistiche

Questa settimana in RoundUp: altri riflessi dell'attacco a Charlie Hebdo nel lavoro giornalistico: la garanzia dell'anonimato per fonti vicine a terroristi e l'esordio di Reported.ly; Internet non è un posto per le news, o almeno non solo: anche per il 2014 - così come per il 2013 - i post più popolari dell'anno prodotti dal New York Times non sono vere e proprie notizie; intanto il popolare critico musicale Sasha Frere-Jones lascia il New Yorker per andare entrare a far parte di Rap Genius (ora Genius): cosa vuol dire per il famigerato "futuro del giornalismo"?

di Vincenzo Marino

Charlie Hebdo, i media e le responsabilità giornalistiche

Foto via Wikimedia Commons

Com’è noto, la settimana scorsa 12 persone sono morte a Parigi in seguito all’attacco contro la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, causato - secondo alcune ricostruzioni - dalla pubblicazione di vignette raffiguranti il profeta Maometto (sulla diffusione delle vignette da parte degli altri organi d’informazione, il diritto di satira e la libertà d’espressione è nato poi un dibattito globale, del quale potete seguire l’evoluzione qui).

A rivendicare l’atto terroristico sarebbe stata la divisione yemenita di Al Qaeda, come riportato da Jeremy Scahill su The Intercept citando una fonte interna al gruppo che avrebbe chiesto di restare anonima. Il diritto alla riservatezza nei confronti di personalità che potrebbero essere ritenute complici di una strage ha acceso una discussione sulla legittimità della protezione delle fonti, anche quando queste sono considerate vicine a organizzazioni terroristiche. Erik Wemple del Washington Post ha fatto alcune domande in proposito allo stesso Scahill: oltre a considerare la protezione dell’identità un dovere giornalistico da ottemperare in qualsiasi caso, l’autore di The Intercept aggiunge che c’era da un lato l’urgenza - giustificata dalla portata della notizia - d’accogliere la richiesta da parte della fonte, e dall’altro il fatto che svelare l’identità avrebbe messo a serio rischio la sicurezza dell’informatore. «My motivation was not to be first, but to provide information that would be of public value».

L’attacco a Charlie Hebdo, dal punto di vista giornalistico, è stato anche il “battesimo di fuoco” di Reported.ly, altra creatura di First Look Media, guidata da Andy Carvin e la sua piccola squadra globale (ne avevamo parlato qui). Carvin ha pubblicato su Medium un resoconto della prima copertura sul campo, riportando i propri spunti e rendendo pubblici i punti deboli dei primi giorni (velocità, coordinamento, racconto su Facebook). Questa settimana Justin Ellis di NiemanLab ha raggiunto il giornalista per fargli alcune domande su questa prima esperienza e sul funzionamento dell'intero progetto. In sostanza, si tratta di un’entità ancora senza sito che, attraverso il coordinamento di sei persone, cerca di raccontare in presa diretta gli eventi sui vari social (in base alle esigenze della notizia), creando dossier originali e facendo fondo a una fitta rete di contatti, circa 200 liste Twitter e una serie di tool di pubblicazione, condivisione e verifica - a riguardo, da leggere questa discussione su Reddit. Una struttura leggera, in continuo beta testing, che per ora non intende cercare di raggiungere i «consumatori passivi» delle news: «per come lavoriamo al momento, non siamo per tutti» - ha spiegato Kim Bui, West Coast Producer di Reported.ly. «We’re for people who are news junkies».

Su Internet c’è posto per le news - ma è un posto piccolo

Le notizie, d’altro canto, non sono sicuramente l’unica ossessione degli utenti di Internet. In un post dal titolo «The most popular stuff on the web isn’t journalism and that’s fine», Matthew Yglesias ricordava su Vox che l’intrattenimento, su qualsiasi media, ha sempre avuto la meglio sul giornalismo - relegato storicamente al rango di «parte dell’intero media mix, e pure una parte evidentemente minoritaria» - e che l’informazione stessa, in tutte le epoche, si è sempre servita di contenuti più leggeri per ibridare i propri prodotti (gossip, oroscopi, ricette). La rivoluzione digitale, secondo Yglesias, non avrebbe fatto altro che seguire questo pattern, seppur attenuando di molto le differenze tra news e disimpegno: a riprova di questa tesi, nei giorni scorsi è stata pubblicata l’ormai consueta classifica dei 10 contenuti più popolari prodotti dal New York Times nell’anno precedente, nella quale si scopre che quelli basati sull’intrattenimento (come nel 2013) continuano a dominare sull’informazione (una gallery interattiva, una lista dei posti più belli da visitare nel 2014, un quiz, una lettera aperta, le notizie della morte degli attori Philip Seymour Hoffman e Robin Williams).

Analizzare i trend del New York Times, peraltro, non è solo un modo per capire gli orientamenti dei lettori e cercare di sondare lo stato di salute del giornalismo online, ma anche di scoprire come la testata si sta adattando al nuovo scenario editoriale, alla luce del famigerato “Innovation Report” del maggio scorso. Per far crescere la readership online, infatti, il NYT aveva pensato alla creazione della figura dell’«audience development editor», affidandola ad Alex MacCallum, ex news editor dell’Huffington Post (della quale Lucia Moses su Digiday ha tracciato un profilo), con l’obiettivo di coinvolgere di più la propria community evitando le derive in stile BuzzFeed - testata che da anni si porta dietro lo stigma dell’esempio negativo, della ricerca del click facile. «La missione del New York Times è produrre il miglior giornalismo al mondo, dando ai lettori informazioni accurate e puntuali. Non penso che BuzzFeed competa in quello stesso spazio», spiegava MacCallum immaginandosi una certa diversità biologica rispetto al sito di Jonah Peretti. Eppure al di là delle buone intenzioni, i lettori - le rammenta Mathew Ingram su Gigaom - continuano a seguire quel pattern, e a preferire ancora contenuti leggeri (gallery, quiz, liste) non dissimili dalle gif e dai listicle: «Che gli piaccia o no, Times e BuzzFeed ormai operano nello stesso business, e al momento sta vincendo BuzzFeed».

Genius e i giornalisti che lasciano i giornali

Nello scenario mediatico attuale, d’altra parte, il giornalismo non si ferma al solo racconto testuale delle notizie, e il lavoro del giornalista richiede capacità diverse nel processo di costruzione dei contenuti. Una delle notizie della settimana è stata quella del passaggio del noto critico musicale del New Yorker Sasha Frere-Jones a Genius. Genius è un servizio online nato come Rap Genius, che permetteva agli utenti di annotare le liriche dei brani rap e parafrasarli tramite testo e contenuti multimediali. I tre creatori, sostenuti da considerevoli fondi d’investimento, hanno deciso da qualche mese di estendere il servizio a tutta la Rete, eliminando il suffisso “Rap”, nell’intenzione dichiarata di «Annotare il mondo» - come recita il loro motto. In sostanza, attraverso questo servizio si possono aggiungere delle note (come evidenziazioni e post-it) in ogni tipo di contenuto presente in Rete: una sorta di onnipresente Wikipedia, applicata a qualsiasi espressione dell’Internet, basata sui ben noti meccanismi di feedback. «Is annotating rap lyrics the future of media?», si chiede Timothy B. Lee. E soprattutto, cosa vuol dire questo per il famigerato futuro del giornalismo?

Sasha Frere-Jones, infatti, non è il primo giornalista a lasciare la propria redazione per cimentarsi in un progetto quanto meno non convenzionale rispetto ai canoni dell’editoria classica: l’esodo è cominciato da qualche anno ed è proseguito con un lungo elenco di giornalisti che hanno salutato carta e redazioni per progetti digital only, tant’è che lo stesso Frere-Johnes - come ricorda Foster Kramer - nel 2010 aveva deciso di abbandonare temporaneamente il New Yorker per imbarcarsi nella nuova iniziativa di Rupert Murdoch, The Daily, lo sfortunato giornale solo per iPad che sopravvisse per pochi numeri. Il suo ruolo a Genius, come notato da alcuni, può essere fondamentale per inquadrare il progetto dal punto di vista giornalistico: il mezzo, almeno in potenza, potrebbe diventare utile nel processo di racconto della notizia, aiutando nella lettura e nella discussione coi lettori. Al momento, a dispetto dei 4,3 milioni di contatti unici raggiunti dal sito in novembre (dati ComScore), la società pare non aver quasi mai prodotto utili considerevoli, in attesa di creare una platea tanto grande da rendere Genius indispensabile a tutti gli utenti Internet - o quanto meno «some rich guys think so».