Community e mobile storytelling

Telefonino e account sui social network: è tutto quanto occorre per produrre del giornalismo di comunità: la frontiera del giornalismo di oggi, ma soprattutto di domani, quando una nuova generazione di storyteller e soprattutto di pubblico imporrà il proprio modo di raccontare e ascoltare le storie.
Con questo e altri tredici preziosi consigli Yusuf Omar, cofondatore di Hashtag Our Stories e già senior reporter per la BBC, l’Hindustan Times e altre prestigiose testate internazionali, ha deliziato il pubblico del Festival internazionale del Giornalismo di Perugia, formato per l’occasione da una percentuale di giovanissimi ancora maggiore del solito.
La nuova generazione, sostiene Omar, è pragmatica: l’utilizzo che fa delle storie che vuole condividere è soprattutto pratico, perciò il compito dell’azienda che ha fondato con la moglie è quello di formare delle minoranze emarginate all’uso del cellulare e dei social network per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita: «Molti giornalisti senior – ha spiegato – hanno perso la speranza di ottenere dei risultati positivi, invece il giornalismo di comunità sta dimostrando che è ancora possibile». Per esempio, gli operatori ecologici indiani hanno organizzato una campagna video social che ha costretto il governo a non aumentare le imposte sul commercio di plastica riciclata. Oppure le donne stuprate hanno ritrovato la forza di raccontare la violenza subita utilizzando i filtri di Snapchat per nascondere la loro identità.
I direttori delle grandi testate fanno fatica a capirlo, e sostengono che si tratta solo di opinioni, ma dall’attacco alle Twin Towers in poi tutte le migliori storie raccontate sono state riprese in diretta da semplici cittadini con i loro telefonini: la qualità della fotografia e del suono non è fondamentale se la storia è autentica e di valore. L’importante è raccontare senza prendere posizione e tener presente le specifiche del mezzo: il 70% degli utenti social non ascolta l’audio, perciò è bene aggiungere dei sottotitoli molto grandi con le parole chiave, e concentrare le immagini più importanti nei primi 3 secondi, in cui il video parte automaticamente su Facebook. In generale – ha concluso Omar – i video girati dai community journalist (che normalmente, almeno all’inizio, non sono pagati) danno migliori risultati sul web – cioè più visualizzazioni e condivisioni – di quelli girati dai professionisti con costose videocamere perché vengono pensati e rivisti immediatamente nelle stesse condizioni con cui poi saranno fruiti dal pubblico. Per questo, data la sua grande crescita, nel giro di pochi anni il giornalismo di comunità diventerà il modo normale di fare giornalismo. La parola chiave sarà «coinvolgimento»: le persone si sentiranno coinvolte in vere e proprie conversazioni.

Alessandro Testa