Hotel La Rosetta, ore 14.30
Interessantissimo dibattito su un tema scottante dei nostri giorni quello che si è svolto questo pomeriggio all’Hotel Rosetta.
A introdurre la sessione Mafe De Baggis, co-fondatrice di pleens.com, “motore di scoperta di storie, viaggi e prodotti raccontati a partire da un luogo”, che ha presentato sinteticamente ed efficacemente i termini della questione. Da una parte oggi ci troviamo immersi in una realtà digitale fulgida di promesse quanto all’attuazione di un reale processo di democratizzazione, come mai era accaduto in passato: ora è più facile pubblicare e far sentire la propria voce. Chiunque può informare, narrare ciò che vede, raccontare il proprio punto di vista. E tutto ciò va nella direzione della costruzione e difesa del bene comune.
Dall’altra, però, ci troviamo anche in un momento in cui permane e anzi continua ad accentuarsi la difficoltà di accedere alla professione di giornalista e di guadagnarsi effettivamente da vivere esercitando questo mestiere.
Ecco quindi la categoria del citizen journalism, il cittadino che veste i panni del giornalista, che scrive e pubblica contenuti sulla rete e grazie alle possibilità offerte dalla rete, in modo totalmente gratuito, senza ricevere una retribuzione. Ma qual è il confine tra democratizzazione e sfruttamento?
Dove finisce l’una e inizia l’altro? E inoltre, la democratizzazione è una vera democratizzazione? Tanti gli interrogativi sui quali i relatori si sono confrontati insieme agli uditori intervenuti all’incontro.
Giovanni Boccia Artieri, che insegna Sociologia del Media all’Università di Urbino, sottolinea quanto il sistema informativo sia totalmente cambiato e la situazione sia complessa. La tentazione è quella di comprendere la realtà attuale attraverso la dicotomia marxista di sfruttatori/sfruttati, applicando gli schemi mentali novecenteschi e una visione manichea alla lettura del contesto odierno. È però vero che la realtà oggi è più complessa ed è rapportabile al doppio concetto di exploitation/reputation: se da una parte chi produce contenuti sul web può essere considerato exploited, sfruttato appunto, dall’altra è anche vero che chi contribuisce alla crescita delle realtà editoriali sta al contempo costruendo e tenendo salda la propria reputazione on-line, la propria reputazione sociale, e sta inoltre operando per la condivisione e il bene comune.
Si sono creati due diversi piani della realtà, sottolinea Artieri: uno puramente economico, capitalistico, e un altro legato invece alla dimensione personale e soprattutto sociale.
Antonio Casilli, del Paris Institute Technology, evidenzia anch’egli la particolarità del momento storico che stiamo vivendo introducendo i concetti di “work and leisure” e “playboard”, forme ibride di lavoro-hobby che caratterizzano la realtà attuale dei lavoratori intellettuali. Di fatto i lavorativi cognitivi si trovano oggi a lavorare non le otto ore canoniche, proprie del secolo scorso, ma sono invitati a contribuire attivamente in rete in maniera continuativa. Parallelamente a questo carico continuo di lavoro si è creato anche il “cognitariato”, il precariato dei lavoratori cognitivi.
Casilli ha soprattutto sottolineato quanto, a suo parere, le categorie mentali di sfruttatori/sfruttati possano ancora essere applicate all’interpretazione del contesto attuale e nella fattispecie alla comprensione dell’odierno scenario del lavoro digitale. Le piattaforme di gestione di contenuti, dietro la promessa di visibilità, di fatto realizzano profitti grazie ai contributi volontari degli utenti.
Inoltre può essere visto criticamente anche lo stesso concetto di bene comune e comunità: “l’appellarsi allo spirito di comunità non può essere piuttosto una trappola che nasconde invece lo sfruttamento della comunità da parte dei possessori delle piattaforme?”, suggerisce Casilli.
Casilli concorda inoltre con il concetto generale già illustrato da Artieri e De Baggis: il sistema informativo attuale è in qualche modo profittevole, tutti ci guadagnano, dal gestore/editore all’utente/giornalista.
Tuttavia Casilli ritiene che sia necessario attuare una redistribuzione della ricchezza verso i reali produttori di contenuti. E a questo proposito ha illustrato diverse forme già esistenti di sindacalizzazione e di tutela del lavoro digitale: dalle Class Actions alle licenze Creative Commons e Open Access sino ad azioni di sabotaggio poste in atto da gruppi di utenti/lavoratori a danno delle stesse aziende. Queste azioni di micro sabotaggio sono nuove forme di tutela?
In conclusione, vista la complessità delle tematiche, l’incontro ha sollevato molteplici domande e questioni alle quali è stato difficile fornire risposte definitive. Tuttavia una speranza e una soluzione per coloro che intendono dedicarsi alla professione giornalistica e in generale alle professioni intellettuali, e per la salvaguardia delle professioni stesse, è stata individuata nella costruzione di reti sociali e nel crowdfunding per il finanziamento dei progetti.
Ancora una volta, la comunità, le relazioni sociali e la volontà di costruire insieme come soluzione al tempo in cui viviamo.
Simona Trudu