“In Italia purtroppo viviamo in una situazione digitale davvero grave. In futuro rischiamo seriamente di trovare nel Paese cittadini digitali, collegati con la nazione e il mondo, in grado di esprimere le loro opinioni, e cittadini di serie B con alcuna preparazione in questo settore e che rischiano, perciò, di essere condannati all'indifferenza collettiva”. È quanto sostiene Juan Carlos De Martin, co-fondatore Nexa e docente al Politecnico di Torino. Parole che suonano come una profezia negativa del mondo tecnologico italiano, analizzato durante l’incontro L’Italia e il medioevo digitale tenutosi questo pomeriggio nella Sala Raffaello dell’Hotel Brufani.Coordinato da Anna Masera, social media editor de La Stampa, l’incontro ha voluto chiarire le controverse motivazioni che vedono il nostro Paese tra gli ultimi posti nella classifica degli stati europei per lo sviluppo delle tecnologie digitali. A tentare di darne una spiegazione c'è, oltre De Martin, anche Massimo Sideri, giornalista economico e commentatore del Corriere della Sera dal 2000 e autore del libro Banda stretta con Francesco Caio.
Per De Martin c’è la necessità di spiegare bene la situazione digitale italiana: “dal mio punto di vista c’è una tendenza ancora forte a considerare il problema del digitale solo tecnologico (ponte radio, telefonia). Non è così perché internet è una tecnologia molto differente dai mezzi che in precedenza utilizzavamo. Se dovessimo fare un’analogia, non la dovremmo fare con la copertura dei servizi ma con il servizio elettrico. Questo general purpose porta al paragone internet-elettricità per diramare un servizio di uso comune”.
Ne emerge dunque un profilo di internet che è molto più importante rispetto alla copertura di un mezzo di comunicazione come il cellulare, che vede in Italia un numero impressionante di dispositivi. De Martin inoltre spiega come, mentre per i cellulari abbiamo dei dispositivi semplici - “digitare solo dei numeri e fare delle semplici chiamate, di semplice utilizzo” - con delle reti molto complicate, nel caso internet è la rete che è molto semplice e vasta, dotata di dispositivi ai margini molto complessi: “i nostri laptop, netbook, ipad e smatphone che hanno bisogno di un’educazione all’utilizzo”, ha precisato De Martin.
Nel momento in cui l’utente si sposta su internet non può più accontentarsi delle semplici funzioni del vecchio sistema, ma deve diventare un utente evoluto in grado di muoversi nel nuovo sistema e di sfruttarne tutte le sue potenzialità: “solo in questo modo possiamo arrivare ad avere dei Cittadini Digitali. Questo in Italia però non avviene e ciò è davvero molto grave”. Infatti, secondo il rapporto “Akamai Technologies”, l’Italia possiede pochissimi strumenti cognitivi di base. Circa la metà degli italiani non riescono a inviare, ricevere e comprendere le modalità di un messaggio nel processo digitale. “Come possiamo parlare di cittadini digitali partendo da una base così bassa? L'unico modo è portare il medioevo educativo al centro dell’agenda politica. Anzitutto, è necessario capire come possiamo recuperare questa metà che non ha competenze cognitive. Bastano, in realtà, tre “semplici” passi: investire in istruzione e alfabetizzazione strutturale; divulgare l’istruzione digitale per migliore le competenze degli utenti, ma soprattutto migliorare subito le infrastrutture perché in Italia stiamo vedendo una paradossale tendenza a reinserire la scarsità con l’utilizzo ancora maggiore del rame”.
Se questo è il punto di vista tecnico, Massimo Sideri, autore di un libro che tratta i problemi della comunicazione italiana e degli “Strani affari” dell’industria delle TLC, ci spiega come vengono affrontate queste dinamiche dalle aziende e dalle istituzione politiche: “sono assolutamente concorde sulla presenza di gravi problemi infrastrutturali e istruzione che rallentano il processo di digitalizzazione. La banda digitale, infatti, si comporta in maniera strana. Telecom controlla tutto il monopolio della telefonia fissa italiana e ha deciso inspiegabilmente di puntare sul rame, condannando così l’Italia a uno stato di regressione poiché considerata incapace di avere un’infrastruttura digitale moderna.” Da questo ritardo - si legge ancora dal rapporto della “Akamai” - l’industria italiana ha un quasi inesistente sviluppo digitale. Nello specifico, prendendo in considerazione il fatto che l’Italia ha il più alto numero di piccole e medie imprese d’Europa, e che proprio queste sono le prime candidate ad espandersi sul web, solo due persone su dieci riescono ad accendere a meccanismi di e-commerce e solo un azienda su 50 riesce a sviluppare un modello di e-commerce adeguato al mercato europeo.
“Secondo me - continua Sideri - questa situazione negativa nasce da due fattori: dalla sfera politica, che ha vissuto con gli anni di governo Berlusconi, e un continuo scontro con internet che, per antonomasia tecnologica, si contrappone ai media tradizionali e il conseguente interesse a contrastare questa tecnologia il più possibile”.
“Il secondo fattore – continua Sideri – è interno alle telecomunicazione: gli stessi operatori concorrenti di Telecom (Vodafone, Wind, Tre) in realtà non spingono più di tanto, se non a parole, a un cambiamento, perché siamo il Paese con maggiore numero di telefonini. La telefonia mobile quindi si configura come il mercato da sviluppare per grandi profitti, ritardando gravemente la crescita dell’infrastruttura fissa”.
Sideri, in conclusione, non usa più l’espressione “medioevo digitale” ma quella ancora più forte, e per certi versi veritiera, di “Terzo Mondo Digitale”. Il giornalista però ammette di vedere un barlume di speranza nel cambiamento di questa situazione, facendo riferimento all’agenda digitale che il governo Monti ha aperto insieme alla Cabina di Regia dei cinque ministeri più importanti che ha il compito, con un decreto ministeriale, di individuare fattori di sviluppo e competitività e anche di definire alcune situazioni per gli speaker del panel davvero paradossali: “tutti i prodotti digitali non vengono considerati culturali. Se io compro un libro in libreria avrò una tassazione del 4% di iva, mentre se compro lo stesso libro in forma di e-book sarà tassato al 21% di iva. Ci si augura che questo decreto, atteso per giugno, riesca a ridurre questa sproporzione e asimmetria tra mondo digitale e il mondo fisico, creata con motivi poco seri e validi per proteggere proprio il mondo fisico”.
Daniele Palumbo