Long form journalism: come finanziare, produrre e diffondere i grandi reportage nell’era del giornalismo digitale

Perugia, ore 17:30 – al Centro Alessi si è discusso di long form journalism e di come realizzare inchieste e reportage nell’era del giornalismo digitale. L’incontro è stato coordinato da Giovanni Boccia Artieri, professore dell’Università di Urbino, che ha aperto il dibattito focalizzando l’attenzione sulle possibilità di valutare le narrazioni complesse in un contesto digitale che predilige brevità e velocità. Alla discussione hanno partecipato anche Marina Petrillo, direttrice di Radio Popolare, Simone Spetia di Radio 24, Piero Vietti del Foglio, Antonio Talia di Informant e Filippo Pretolani, co-fondatore di Pleens.

Il long form journalism è adatto per il web? Se è vero che i lettori sono alla ricerca di informazioni sempre più brevi e concentrate, come si possono conciliare i (lunghi) contenuti di approfondimento con queste nuove abitudini di consumo dell’informazione, ormai fruita quasi esclusivamente online o da smartphone? Lo scenario attuale costringe il mondo dell’editoria a reinventarsi e ripensare l’intero sistema. Come sostiene Pretolani, sta emergendo l’esigenza di trovare modelli di business in grado di individuare, finanziare e promuovere i buoni contenuti giornalistici attraverso un’attività di curation.

Nonostante la tendenza a pensare che oggi si legga meno e non si dedichi più attenzione ai pezzi giornalistici lunghi in favore delle junk news, i dati mostrano che il long form journalism riscuote ancora molto successo. Si deve ripensare il concetto stesso di lunghezza, come afferma Spatia: essa consiste nella qualità dei contenuti proposti, nel materiale trattato e nella capacità narrativa. Ma questo non è strettamente legato a una questione di spazio: si può scrivere un contenuto analitico e rilevante anche in 140 caratteri. La differenza deve essere tracciata fra contenuti complessi e contenuti elementari.

Come racconta Vietti, il Foglio è l’esempio di un giornale di nicchia che pubblica spesso inserti e articoli di media lunghezza, e che registra il maggior numero di vendite nel giorno in cui si pubblicano più approfondimenti. Questo dimostra che quando si costruisce un rapporto fiduciario col lettore, quest’ultimo è disposto a investire tempo e denaro per sostenere ciò che lo appassiona. Tuttavia, se da una parte esistono il crowdfunding e tutte le forme di finanziamento dal basso, perché anche le grandi company non dovrebbero iniziare a finanziare questo tipo di produzione dell’informazione?

Quando ci sono rapporti di fiducia e contenuti che hanno credibilità, le media company dovrebbero provare a realizzare ciò che Pretolani definisce “fare sistema”: investire budget pubblicitario sulle community. “Perché non concentrarsi sulle community, invece di dedicare tutti gli investimenti a contenuti con successo già assicurato? Perché non fare curation delle produzioni che ci sono in giro e strutturarle, supportando queste dinamiche?”

È difficile localizzare il talento giornalistico su cui investire, ma è anche vero che la stessa pubblicità non garantisce conversioni. Perciò perché le company non dovrebbero correre lo stesso rischio investendo sul long form journalism? Infatti – conclude Pretolani – “ha senso investire sulla qualità dell’informazione, più che pensare univocamente al ritorno diretto sugli investimenti”. Come recita un tweet ricevuto da Spatia durante il dibattito: il problema non è: “non ci sono soldi, chiediamoli alla folla”, ma “c’è la folla, costruiamo un modello che non sfrutti troppo le nicchie e  sia sostenibile per tutti!”.

Silvia Mazzieri

@SilviaMazzieri