di Fabio Chiusi
Egveny Morozov, giornalista ed esperto di geopolitica, sarà ospite del Festival Internazionale del Giornalismo #ijf16.
In ‘The Pervert’s Guide to Ideology’, il filosofo sloveno Slavoj Zizek ricorre a un’immagine semplice ed efficace per illustrare il funzionamento dell’ideologia contemporanea. Viene dal film ‘Essi vivono’ di John Carpenter. Nella pellicola, datata 1988, il protagonista scopre l’esistenza di un paio di occhiali che, una volta indossati, mostrano i reali messaggi che si celano dietro gli slogan propagandistici che affollano Los Angeles. “Stiamo creando un ambiente trasparente per il computing”, recita un cartellone pubblicitario della ‘Control Data’, un’azienda immaginaria ma che tuttavia sembra aver ben capito una delle buzzword - la “trasparenza” - che avrebbero dominato il dibattito tecnologico nei decenni a venire, fino ai giorni nostri.
John Nada, interpretato da Roddy Piper, inforca gli occhiali e al suo posto vi legge un imperativo di tutt’altro ordine: “ubbidisci”. Allo stesso modo, “fai le tue vacanze ai Caraibi” diventa “sposati e riproduciti”. Ovunque è lo stesso: il mondo è pieno di messaggi ideologici smascherati - “non pensare”, “uniformati”, “resta addormentato”. “Quegli occhiali”, dice Zizek, “sono occhiali per la critica ideologica”. A dire: il nostro stato di natura, ciò che incontriamo anche in quest’era cosiddetta “post-ideologica”, è al contrario proprio l’ideologia. Liberarsene comporta uno sforzo, guardare attraverso lenti che dobbiamo imparare a sovrapporre allo sguardo.
Contro l'ideologia della Valley
Non c’è immagine migliore per descrivere il tentativo messo in atto da Egveny Morozov con la sua opera. Il pensiero dello scienziato politico bielorusso, classe 1984, può essere infatti letto nel suo insieme come il tentativo di fornire quel paio di lenti anti-ideologia ai membri della nostra società iperconnessa, bombardata dalla propaganda di chi la iperconnette. Cos’è la “uguaglianza digitale” promessa da Mark Zuckerberg in cartelloni, post e pagine di giornale in India, per esempio, se non il tentativo di nascondere nel proposito, innocuo, di “connettere il mondo” quello, ben più concreto, di connetterlo tutto a Facebook - violando, di passaggio, la neutralità della rete? Propaganda, certo, ma aderente a una precisa filosofia di fondo. Che è ciò che gli scritti di Morozov vogliono davvero colpire. Si potrebbe dire, proseguendo la metafora di Zizek, siano gli occhiali di cui disponiamo per cominciare una critica dell’ideologia della Silicon Valley.
Una operazione non senza fatica. E non senza polemiche. Lo stile accuminato e la verve polemica di Morozov si sommano a una volontà ferrea di porre domande radicali, fondative - dobbiamo farlo, scrive - sul senso di parole che usiamo quotidianamente, ma che non significano più nulla: “digitale”, “libertà di Internet”, la stessa rete “Internet” che, nelle mani degli ideologi dell’era social (Facebook, Google) e della “sharing economy” (Uber, AirBnb) è divenuta poco più che il pretesto per proseguire e portare alle sue conseguenze ultime il neoliberismo più selvaggio sotto mentite, e più gradevoli, spoglie.
Domande radicali che non risparmiano se stessi, le proprie convinzioni. “Sono stato uno dei primi a cadere nella trappola della rivoluzione di Twitter”, confessa Morozov in una nota de ‘L’ingenuità della rete’ (Codice), esaltando eccessivamente il ruolo dei nuovi media nelle proteste iraniane del 2009 e, in precedenza, nelle cosiddette rivoluzioni colorate. Poi il dottorando ad Harvard ha intrapreso la strada opposta: spiegare come mai è così semplice cadere nei tranelli di chi ha promesso per decenni un’utopia di uguaglianza, prosperità e benessere individuale grazie alla tecnologia. E che continua a farlo nonostante il sogno si sia tradotto in un guazzabuglio di disuguaglianze, discriminazioni e censure automatiche, abusi dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, sorveglianza e profilazione di massa senza precedenti, al punto che è l’idea stessa di coniugare democrazia e tecnologie di rete a essere messa in questione.
Come è possibile? Morozov sembra rispondere a questa unica domanda nonostante il moltiplicarsi di saggi, volumi, editoriali, recensioni al vetriolo. E la risposta compone quello che oggi è forse il ritratto più inquietante e provocatorio dell’ideologia della Silicon Valley. Mettendo insieme i principali lavori dello scienziato politico, si può dire sia composta da:
Cyber-utopismo, “ovvero la fiducia ingenua nel potenziale liberatorio della comunicazione online” (‘L’ingenuità della rete’).
Internet-centrismo, una “filosofia dell’azione” che riformula ogni domanda o questione politica, economica e sociale “a partire da Internet”, perché quella di “Internet” è un’era rivoluzionaria, senza precedenti e dunque incomprensibile con vecchie categorie di pensiero.
Soluzionismo, cioè l’idea per cui ogni problema sia un bug in un software in attesa di un fix tecnologico.
Consumismo informativo, ovvero l’ossessione di ammassare - e condividere - dati, tipica dell’era di un’altra insignificante buzzword, “Big Data”.
Dividendo della sorveglianza, cioè l’idea secondo cui, come si legge in ‘Silicon Valley, I signori del silicio’, “l’internet delle cose, i Big Data e l’inevitabile rivoluzione dell’intero universo da parte di un manipolo di start up californiane produrranno abbondanza economica, emancipazione politica e prosperità universale”.
Regolamentazione algoritmica, ovvero sottomettere ogni decisione politica alla sua riduzione a dati prodotti da sensori, app e meccanismi di feedback e dunque, con le parole che Morozov prende a prestito dal filosofo Giorgio Agamben, a un modello “in cui la relazione gerarchica tradizionale tra cause ed effetti è invertita, così che, invece di governare le cause – un compito difficile e costoso – i governi cercano semplicemente di governare gli effetti”.
Deregulation, perché le norme si scrivono in codice o per alzata di mano virtuale, a colpi di consenso istantaneo.
Efficienza, l’imperativo di chi vuole connettere e digitalizzare tutto.
La seduzione del 'nuovo' capitalismo
Ma in ultima analisi, secondo Morozov, Silicon Valley è la faccia benevola di Wall Street, l’altra metà di un intero. Da una parte l’austerità dovuta alla crisi finanziaria e le disuguaglianze, dall’altra l’era dell’abbondanza e della collaborazione paritaria, in cui chiunque - il ricco e il povero - può consumare lo stesso. Tutti i principi appena descritti, insomma, sono il volto buono, presentabile, del capitalismo contemporaneo. E nemmeno la critica tecnologica riesce a mettere davvero in questione, a problematizzare quel rapporto: “discutere di tecnologia oggi”, scrive Morozov, “significa appoggiare, spesso senza neanche accorgersene, alcuni degli aspetti peggiori dell’ideologia neoliberista. Non solo: non importa da che parte stiate, perché molte delle critiche alla Silicon Valley sono a loro volta allineate con le teorie del neoliberismo”. E ancora: “proprio come la Silicon Valley ha un futuro solo all’interno del capitalismo contemporaneo, il capitalismo contemporaneo ha un futuro solo all’interno della Silicon Valley”.
Ma gli inganni continuano a perpetuarsi. E Morozov, con i suoi occhiali alla John Nada, ne vede ovunque. Uno è l’idea - sostenuta in varie parti e modi, da Jeremy Rifkin a Paul Mason - che la “sharing economy” possa rappresentare un balzo nel “postcapitalismo”, o comunque un’eccezione rispetto all’ideologia dominante e invece non sono che un modo più seducente e accettabile di proseguire la distruzione neoliberista dello stato sociale. Colossi monopolistici che si finanziano con le tasse eluse nei paesi in cui operano; discriminazioni automatiche e influenti in sempre più aspetti delle vite dei loro utenti, che nemmeno se ne accorgono; fine della privacy; populismi “hi tech” di destra e sinistra, vittime delle bugie della “democrazia digitale” o della smania di consenso istantaneo, basato sui dati raccolti e processati in tempo reale piuttosto che su articolate visioni politiche; e desideri folli, fino allo sconfiggere la morte che rappresenta l’utopia ultima della religione della Valley, il transumanesimo.
Questo è il mondo che Morozov, con le sue lenti affilate come lame, vuole mostrarci. Un mondo che reagisce troppo spesso brandendo - a casaccio - l’accusa di “luddismo”, ossia di essere come chi risponde rigettando la tecnologia. E invece il messaggio è, molto più banalmente, di trovare una via umana al “cyber-realismo”, a una critica cioè oltre gli (stanchi) opposti di entusiasmo e apocalisse e insieme radicale, capace di ribaltare la nostra percezione del mondo e di farlo prima che sia troppo tardi. Soprattutto, bisogna smettere di parlare di tecnologia senza comprendere che, sempre, stiamo parlando di politica, economia, rapporti tra uomini e società. Non serve a nulla, dice Morozov, se non ad arricchire i protagonisti del “capitalismo delle piattaforme”, alimentare la sorveglianza globale e perpetuare l’illusione, in tutti gli altri, che tutto questo serva a realizzare una ipotetica, e al momento invisibile, terra promessa.
Il progetto è complesso e tortuoso, ma già oggi se ne vede qualche spiraglio. Introdurre un’etica per le decisioni algoritmiche; trattare il consumismo informativo con le stesse preoccupate attenzioni riservate al consumismo energetico e alla questione ambientale; sfruttare la “sharing economy” per aggiornare i servizi pubblici, invece che appaltarli o svenderli a privati; comprendere i tanti modi in cui il potere - pubblico e privato - può appropriarsi del potenziale delle reti sociali e manipolarlo ai suoi fini; trovare un modo per automatizzare il lavoro senza che ciò significhi sostituire la macchina all’uomo - che peraltro, è esattamente quanto cercavano di ottenere i luddisti con le loro proteste. Sono alcuni dei temi su cui Morozov invita a riflettere da tempo. E che andrebbero affrontati, piuttosto che elusi concentrandosi sui toni - a volte eccessivamente aspri - con cui lo scienziato politico li esprime: che si sia d’accordo o meno, sono alcuni dei principali snodi critici del nostro tempo.
Egveny Morozov, giornalista ed esperto di geopolitica, sarà ospite del Festival Internazionale del Giornalismo #ijf16: