Se il giornalismo è roba da ricchi

Questa settimana in RoundUp: l'evoluzione di Twitter, da piattaforma sociale a media company quotata in borsa; la strategia ad oriented, che privilegerà inserzioni e commenti sui programmi tv; il native advertising: un "pericolo" per il giornalismo che per ora, a Quartz, sta dando i primi frutti; quando il giornalismo costa: un'analisi di Le Monde che immagina un'informazione a due velocità - per ricchi e per poveri - e un articolo di AlJazeera che si concentra sull'impossibilità d'accedere alla professione senza adeguate coperture economiche.

di Vincenzo Marino

«Twitter non è più una social company»

Questa settimana molti dei commenti online sul mondo dei media si sono concentrati su Twitter, il suo futuro come piattaforma social, come distributore di notizie e contenuti pubblicitari e come attore finanziario. La company di San Francisco, fatta domanda per la quotazione in Borsa, ha infatti intenzione di cambiarne quasi radicalmente l'interfaccia. L'obiettivo di Dorsey e soci, stando a quanto riferito da autori come Mike Isaac su AllThingsD e Matt Buchanan sul New Yorker, sarebbe quella di orientare il core business di Twitter verso l’universo mobile, cercando di imporsi come principale second screen application, la più naturale «social soundtrack for TV» e la più innovativa piattaforma per testare nuovi modelli pubblicitari. Un’evoluzione che può sembrare solo commerciale o estetica, ma che investe più di un piano - a partire da ciò che Twitter nell’universo mediatico rappresenta, e come ha saputo conquistarsi questa posizione rispetto a una robusta e agguerrita concorrenza.

Secondo Maxwell Wessel, in un pezzo pubblicato sul sito della Harvard Business Review, appare ovvio come Twitter sia ormai diventata tutt’altro che una semplice social company: si tratta di una piattaforma aperta, ottimizzata per contenuti pubblici, in grado di sopravvivere ai cambiamenti del mercato e all’evoluzione dei media, forte della semplicità di un servizio che col tempo ha saputo imporsi come “essenziale”. Che siate una produzione cinematografica milionaria o un utente di YouTube - spiega Wessel - avete entrambi bisogno di coinvolgere il pubblico allo stesso modo e far sì che il vostro prodotto sia condiviso: «There is a job to be done, and Twitter handles it quite thoroughly». Si spinge più in là John Naughton su Comment is free del Guardian, che questa settimana parla di Twitter come di un servizio che «ha il potere di controllare l'espressione dell'opinione pubblica nel dibattito politico». Diverso, secondo l'autore, è l'impatto che genera rispetto a Facebook, ma peculiare - più di tutte - sarebbe la capacità di fare di un qualsiasi user un’agenzia di stampa, trasformando «ordinary people into broadcaster». Twitter, in sostanza, è un'innovazione più sistemica che invade sia media che cittadini, malgrado sia nata - come ogni company che sta sul mercato - per far profitto e monetizzare al centesimo tutto ciò che offre.

Prima la tv

A questo proposito sono stati pochi ma ben assestati i passi che hanno condotto alla svolta di queste settimane: il senso del profondo restyling in arrivo a breve è esaltare i contenuti multimediali e le conversazioni, puntando su uno stream molto più simile a quello di Facebook, Instagram o Pinterest per praticità e impatto visivo - applicazioni nelle quali le foto, contenuto a maggior tasso di engagement, appaiono direttamente in timeline. Non sarà sfuggita, inoltre, una delle introduzioni principali di questi giorni, la linea verticale azzurra che ricostruisce le conversazioni tra diversi utenti, scompaginando l'ordine dei tweet in bacheca e abbattendo uno degli storici muri sui quali l'intero sistema Twitter si è basato per anni: la semplice riproposizione cronologica dei post. Novità sostanziali per gli utenti, dunque, ma cambio di strategia orientato soprattutto a fini pubblicitari, pezzi di un mosaico più grande che portano al vero obiettivo della società: puntare deciso sul mercato televisivo.

Da questa estate Twitter sta infatti testando la cosiddetta "Tv Trending Box", un'area del sito - e dell’app - focalizzata sugli show più commentati. Uno stream autonomo per la tv, che dovrebbe essere al centro del nuovo Twitter e della sua futura strategia commerciale. Una scommessa, che punta sul potenziale di traffico generato dagli eventi live, sempre più commentati, e una risorsa da spendere per il mobile advertising, che su uno strumento del genere troverebbe un mercato tutto nuovo sul quale investire, e su una piattaforma parallela che ‘completa’ - senza entrare in competizione - le inserzioni pubblicitarie della tv. Un nuovo corso completamente ads oriented, spiega John Herrman su BuzzFeed, la diretta conseguenza della futura quotazione in borsa: più pubblicità, ma più «familiari», sempre più simili «ai tweet degli utenti che segui, e sempre più simile a ciò di cui stanno parlando».

«Il native advertising è un pericolo»

La vera sfida della pubblicità online è infatti da tempo quella di assomigliare sempre più a un contenuto editoriale (come visto) e creare quello che questa settimana, sul New York Times, David Carr definisce effetto «storytelling». Il native advertising, che ha già trovato ampio utilizzo su siti come Forbes, The Atlantic, BuzzFeed e (di recente) New Yorker, non sarebbe altro che pubblicità «vestita da giornalismo, che imita lo storytelling estetico del sito che la ospita». Per parlarne, Carr riporta questa settimana le parole dell'inventore dei banner pubblicitari - «the guy who ruined the Internet» - Joe McCambley, che si esprime in termini piuttosto scettici: quando accetti di pubblicare inserzioni di questo tipo, benché debitamente segnalate, «stai scommettendo con il contratto che hai coi tuoi lettori», spiega. «Quando vai su Forbes - che con la sezione BrandVoice è stata tra le prime testate ad adottare il modello native - ti aspetti analisi finanziarie e news (…). Invece ci trovi un mix di articoli dello staff, di collaboratori, degli sponsor. È difficile capire dove sei». Il senso del ragionamento ospitato da Carr è che la ricerca di un modello di sostenibilità basato sulla ‘svendita’ dei valori giornalistici rischia di svalutare l'intero apparato informativo, e non servire più a niente - un «pericolo per il giornalismo».

Dal punto di vista puramente economico, tuttavia, il modello comincia a diventare la base imprenditoriale sulla quale costruire un progetto editoriale, cominciando a pensare di trarne profitto. È il caso di Quartz, il portale d’informazione economico-finanziaria di The Atlantic (di cui abbiamo parlato anche la settimana scorsa) che secondo l'editore Jay Lauf, stando a quanto rilasciato in un’intervista a TheMediaBriefing, dovrebbe ottenere i suoi primi profitti nel 2015 (quindi a soli tre anni dal lancio) proprio grazie all'aiuto di una strategia incentrata sul native advertising. Un lavoro che ammette essere intenso, fatto di esperimenti e tentativi, di analisi del feedback sui contenuti pubblicitari, ma che a Lauf appare naturale: «Gli inserzionisti stanno uccidendo la stampa più velocemente di quanto ci impiegherebbe a morire di morte naturale», e un sistema a un mondo «che non include gente disposta a pagare per contenuti online, o almeno a gran parte di essi» deve essere necessariamente trovato. Al momento, sia per Quartz che per Atlantic le entrate derivanti dalla pubblicità digitale sono salite dal 10% a più del 60 in cinque anni.

Giornalismo per ricchi

Lo scenario editoriale del futuro è tutto da scrivere, e la ricerca ai modelli sostenibili è ovviamente ancora aperta. Questa settimana su Le Monde Bernard Poulet analizza la situazione dell'editoria mondiale alla luce dell'acquisto del Washington Post da parte di Jeff Bezos, del suo rapporto col prodotto-giornale e sul futuro della carta stampata. Esaminata quella che per l’informazione online definisce l’«illusione del tutto gratis», Poulet riprende la nozione del CEO di Amazon del giornale come «bene di lusso» per presentare uno scenario futuro nel quale l'informazione viaggia «a due velocità»: da una parte un tipo d’informazione costosa, d'élite, per lettori ricchi, eruditi, influenti, destinato a tappezzare i tavolini dei salotti del potere e delle classi più agiate; dall'altra un'informazione gratuita, di bassa qualità, che viaggia su un’altra agenda, che basa la propria sopravvivenza su costi di produzione più bassi e, probabilmente, grosse quantità di pubblicità. Giornali per ricchi e per poveri, in sostanza, in un panorama nel quale il ruolo sociale del giornalismo, la garanzia di un'informazione orizzontale al servizio dei cittadini e di una democrazia informata, rischia decisamente di soffrire.

La stessa professione giornalistica appare sempre più inaccessibile a livello meramente economico. L'argomento è stato affrontato questa settimana da Sarah Kendzior su AlJazeera: in questi giorni infatti il Senato americano ha cercato codificare il mestiere giornalistico dando una definizione esatta della professione e delle tutele di cui essa dovrebbe godere. La proposta di legge parla di lavoratori dipendenti o autonomi che abbiano lavorato per un anno negli ultimi venti o tre mesi negli ultimi cinque anni, scatenando le critiche di chi ha definito insufficienti le garanzie per chi pratica giornalismo come blogger indipendente e non ne fa una vera professione (ne avevamo già scritto qui). «Il giornalismo sta diventando sempre più un mestiere accessibile solo ai benestanti» spiega l'autrice, persone che hanno a loro disposizione un «paracadute finanziario» che rende la loro carriera di freelance possibile, aggiunge l'autrice canadese Alexandra Kimball. Le stesse scuole di giornalismo, spesso un prerequisito in molti paesi per accedere alla professione, hanno un costo medio piuttosto elevato (con rette che vanno dai 30 agli 80 mila dollari in US), facendo del giornalismo, in paesi come la Gran Bretagna, la terza professione più ‘esclusiva’ e quella con la minor mobilità sociale. «Il risultato - conclude Kendzior - è che il giornalismo è una professione alla quale molti americani non possono formalmente accedere», al di là delle effettive definizioni.