Gli anni che hanno sconvolto il mondo dei media e l’ossessione dei social network

di Vincenzo Marino

Questa settimana in RoundUp: lo studio del Reuters Institute sugli ultimi anni che hanno rivoluzionato irreversibilmente il panorama mediatico; le critiche di Dean Starkman della Columbia Journalism Review al modello quantitativo delle free news, messo in opposizione a quello paywall in grado di garantire alti standard giornalistici; la replica di Mathew Ingram su GigaOM, secondo il quale quantità e qualità possono ancora convivere; l'ultima rivoluzione di BuzzFeed: puntare anche sul longform journalism; i pericoli della dipendenza da social network per i media, analizzati da Craig Kanalley; e infine, l'analisi del traffico proveniente dai dark social - quegli strumenti impossibili da tracciare in fase di elaborazione dei dati in entrata - condotta da Alexis Madrigal su The Atlantic.

Gli anni che hanno sconvolto il mondo dei media

Giovedì scorso il Reuters Institute for the Study of Journalism ha pubblicato un report sull’evoluzione - o meglio ‘rivoluzione’ - nel mondo dei media negli ultimi tempi: Ten Years that Shook the Media World è un documento di circa settanta pagine nel quale vengono tracciati storia e effetti di dieci anni di cambiamenti cruciali e irreversibili nel settore, ma che non hanno ancora condotto mestiere e operatori ad un nuovo e definitivo scenario. L’inizio di un lungo «periodo di transizione» che ha visto imporsi internet come media emergente e strumento fondamentale per il futuro della professione, ma non ancora come alternativa – per gli utenti come per gli inserzionisti pubblicitari – a vecchi medium come la televisione. Un panorama che paradossalmente si riproduce anche – se non soprattutto – in quelle parti del mondo come Europa e Nord America dove le connessioni a banda larga sono più diffuse ma nelle quali sono ancora tv e giornali ad assicurarsi gran parte del mercato pubblicitario, e le iniziative digital native fanno ancora fatica a imporsi o a trovare un modello di business alternativo e funzionale.

Ma la ricerca, condotta da Rasmus Kleis Nielsen, si è soffermata anche su alcuni casi nazionali specifici, includendo sei tra le più ricche democrazie occidentali (Finlandia, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) e due economie emergenti (Brasile e India), e restituendo uno scenario diviso in quattro fasce: i paesi come gli USA, dove il settore appare più in difficoltà rispetto a quello europeo; l’area mediterranea, nella quale i seri problemi legati alle flessioni cicliche dell’economia, la bassa estensione della banda larga e i problemi istituzionali e politici ereditati da anni parlano di un’inevitabile crisi del sistema; lo scenario nord occidentale, fondato su lettori abituali e riduzione della dispersione di utenti online dato il minor digital divide; e infine, in ascesa, le economie emergenti che beneficerebbero «dell’aumento dell’alfabetizzazione, della crescita economica e dell’emergere di una nuova classe media  urbana alla quale gli investitori guardano con grande interesse».

In sostanza, in un panorama ancora incerto e caotico, appare ormai sicuro quanto le nuove piattaforme digitali abbiano «creato nuove opportunità per socialità, condivisione di news e ricerche, ma non è ancora chiaro se queste forniscano anche un ambiente ideale per un giornalismo di tipo professionale».

Il modello free nemico della qualità

Il tema della qualità è stato uno dei più discussi della settimana, a cominciare dal contributo di Dean Starkman su Columbia Journalism Review. Il punto di vista dell’autore - che riprende una polemica già iniziata settimane prima - prende le mosse da tematiche più economiche, arrivando a chiedersi come possa il modello delle free news mantenere standard elevati di giornalismo, essendo principalmente basato sulla quantità. In genere, «più post una news organization pubblica, più hit riesce a generare, più sono elevate le possibilità che questa diventi ‘virale’, più ha da guadagnare dal punto di vista pubblicitario». Un modello che tende a premiare il volume, ma «la quantità, a date risorse, è nemica della qualità».

Come opporsi a questo meccanismo e provare a sopravvivere alla natura all free della rete? La soluzione più credibile al momento, secondo Starkman, sarebbe il sistema paywall, un sistema che aiuta le redazioni a mantenere alti i budget di produzione, ma che allo stesso tempo le incentiva a produrre contenuti di qualità tali da motivare gli utenti all’acquisto del prodotto - proprio come per il giornalismo su carta. Ovviamente, precisa Starkman, il ‘muro’ non può garantire, da solo, la qualità del contenuto, come allo stesso modo il sistema basato sulla gratuità di testate come Huffington Post non proibisce loro di produrre contenuti credibili. Ma ciò, secondo l’autore, non sarebbe un punto a favore del reale funzionamento dello schema free, quanto piuttosto la dimostrazione che è possibile al massimo sopravvive ‘nonostante il modello volume based.

In definitiva, una struttura che definisce «difettosa»: «ben presto, i sostenitori delle notizie gratuite dovranno accorgersi delle implicazioni del loro modello […]. Contare su annunci online come unica fonte di reddito è sia sbagliato in teoria che disastroso nella pratica, dato che sta già avendo conseguenze disastrose nelle redazioni locali». D’altra parte «anche brutti post fanno traffico», ricordava Felix Salmon sul suo blog su Reuters qualche tempo fa. E meno ci si preoccupa della qualità, più opportunità si hanno di pubblicare articoli che saranno condivisi o cercati prima degli altri. «Alta quantità e bassa qualità non sono inevitabili nella struttura free - semplifica Starkman - ma gli incentivi forniti da quel tipo di modello portano proprio in questa direzione».

Qualità e quantità possono convivere

Ma è davvero così? «Sembra abbastanza evidente che Starkman crede che il modello free news sia una strada verso la perdizione, giornalisticamente parlando»: è la replica, apparsa due giorni dopo su GigaOM, di Mathew Ingram in un post dall’eloquente titolo «No, giving away the news doesn’t mean lower-quality journalism». Ingram si richiama alla storia del giornalismo tradizionale, nel quale, ammette, «negli ultimi cinquant’anni i giornali sono sopravvissuti principalmente grazie alla pubblicità», sebbene «alcuni di loro abbiano prodotto del buon giornalismo, e altri invece meno». Sarebbero quindi altre le motivazioni in grado di muovere alla produzione di contenuti professionali: «Il modello che scegli di adottare non presuppone o predetermina nulla di ciò che in realtà produci».

È sì vero che il modello basato su pageview e click è ancora quello dominante nell'industria pubblicitaria online, ammette l'autore, ma di questo - specifica - non si può certamente dare colpa ai media, e non si può credere che tutti siano disposti a sottostare al meccanismo 'populista' delle visite uniche per continuare a sopravvivere e produrre del giornalismo degno. Altrimenti, continua, del tutto inutili sarebbero i tentativi di testate come The Atlantic che sperimentano da tempo il native advertising - basato sulla creazione di contenuti orientati alla pubblicità - e su nuove metodi di racconto e impaginazione delle news - si veda l'esperimento Quartz di cui abbiamo già parlato.

Non sarebbe necessario, dunque, basarsi sul solo modello paywall, come suggerito fortemente da Starkman, ma trovare nuovi metodi di coinvolgimento del lettore (magari qualcosa di simile alla cosiddetta membership di cui abbiamo parlato anche qui). La verità, conclude, è che «il business dei media ha sempre combinato abbonamenti e pubblicità, e il futuro dell'informazione molto verosimilmente dovrà continuare a condividere questi due aspetti - questi e altri modelli che non abbiamo ancora previsto. Alcuni produrranno giornalismo d'alta qualità, altri magari meno, proprio come i giornali hanno sempre fatto, e la parola alla fine spetterà ai lettori che sceglieranno il contenuto che avrà colpito la loro attenzione».

BuzzFeed e il longform journalism

Alla qualità in forma lunga e articolata punta persino BuzzFeed, che sta cominciando a percorrere la strada del longform journalism, un modello ‘cartaceo’ di produzione di contenuti - generalmente associato al formato del magazine - che contrariamente ad altre derivazioni del giornalismo ‘classico’ non è stato ancora ucciso dalla rivoluzione digitale. L'aggregatore, che cerca ormai da tempo di dotarsi di una valenza giornalistica di spessore coniugando l‘informazione politica d'avanguardia al peggiore trash virale di internet (qui qualche trucco spiegato direttamente dal SEO Jonah Peretti), ha infatti intenzione di applicare la sua formula ad alta condivisione sui social anche agli articoli da 10 mila e più parole. Partendo, di recente, da un articolo dell'ex Senior Editor di Rolling Stones Doree Shafir, da poco assunta come Executive Editor, sullo stato di incoscienza da insonnia dal titolo «Can you die from a nightmare?».

Ma come combinare viralità e forma lunga? È sufficiente dare uno sguardo al primo titolo, già catchy in vero stile BuzzFeed, e leggere le intenzioni della stessa Executive Editor del sito: puntare su temi universali (come appunto il sonno e l'orrore notturno) in grado di interessare chiunque, o richiamare l'attenzione di comunità specifiche - e cita surfisti e genitori di bambini autistici. «Penso che le storie con un loro nucleo emotivo tendano a risuonare di più nelle persone», ha spiegato Shafrir. Il post, al momento, ha quasi seicento like e 400 condivisioni su Twitter.

Una lettura online ‘tablet-e-divano’ in stile New Yorker o The Atlantic che trova i propri precedenti nel gruppo di The Awl, siti in grado di avvicinare alla forma lunga anche una readership giovane, magari incapace di abbandonare i pregiudizi nei confronti della carta ma che sa apprezzare la forma quasi letteraria e il contenuto generalmente originale di questo tipo di post.

I media e l’ossessione da social network

Secondo uno studio dell’Università di Chicago i social media creerebbero più dipendenza di alcool e sigarette: sono queste le premesse di un post pubblicato questa settimana sul blog del Senior Editor di Huffington Post Craig Kanalley, che ha cercato spostare l’attenzione sugli effetti di questa dipendenza sui media. E come sempre più spesso accade, a muovere le mani sulla tastiera è il comportamento quasi morboso della classe giornalistica - o buona parte di questa che fa uso di social network - durante un evento di grande rilevanza. In questo caso, il dibattito fra Obama e Romney della settimana scorsa, nel corso del quale «migliaia di giornalisti stavano pubblicando su Twitter la stessa frase nello stesso momento», parola per parola. Come fosse un’ossessione.

Kanalley definisce la cosa «preoccupante», elencandone le ragioni. Innanzitutto, teme si perda il senso vero del giornalismo, dubitando del fatto che 140 caratteri possano bastare per raccontare effettivamente un evento o una notizia, o possano sostituire l'intervista telefonica o faccia a faccia - «Il newsgathering sui social media può aiutare il nostro giornalismo, ma non può rimpiazzarlo completamente». Interessante anche il denunciato pericolo di perdita del «senso della realtà», che rischia di includere il giornalista in una bolla privandolo della capacità di farsi comprendere al di fuori di essa.

Immancabili, ovviamente, i riferimenti all'ossessione da velocità, a tutto discapito della verifica e della cura - si veda sopra - e la «perdita di controllo», determinata dal riporre troppa fiducia negli algoritmi di Facebook, per esempio, prima di decidere sui contenuti da scrivere e pubblicare. In conclusione, spiega il Senior Editor, sarebbe sì necessario «essere ovunque», come i tempi e gli strumenti adesso imporrebbero, ma senza basare la propria ‘sopravvivenza’ giornalistica su altro che il proprio sito, dal momento che non possiamo avere idea di quale potrebbe essere lo scenario social dei prossimi venti anni, ma che quasi certamente il giornalismo continuerà ad avere una casa.

Il «dark social»

Il tema della perdita del controllo su ciò che si decide a livello editoriale, e sull'ossessione da contatti unici, richiama un altro articolo di questa settimana, firmato da Alexis Madrigal per The Atlantic. La tesi è semplice e motivata: non ci si può far influenzare dal pubblico proveniente dai social network se non se ne conosce l'origine. Madrigal racconta di essersi incuriosito di un dato sul quale non aveva riposto mai troppa attenzione, ma che lo accompagnava sempre nell'analisi dei flussi di visitatori e i referral verso il proprio sito: da dove vengono quelle visite che non sono chiaramente tracciabili, o riconoscibili? L'ossessione per il controllo delle fonti degli utenti e l'osservazione dei cambiamenti dovuti alla condivisione sui social nel proprio traffico sono tra le caratteristiche principali delle nuove redazioni online. Tuttavia, non tutto può essere considerato tracciabile e comprensibile, giacché «esiste un vasto ammontare di traffico social essenzialmente invisibile alla maggior parte dei programmi di analisi dei dati. Io - spiega l'autore - lo chiamo dark social».

Non si tratta solo degli 'arrivi' da digitazione del sito sulla stringa del browser, o dal click sul segnalibro: è traffico che più precisamente proviene da conversazioni private, da programmi di instant messaging, email, tutti mezzi difficile da misurare e che dunque sfuggono al controllo di chi esamina attentamente il traffico ogni giorno. Secondo i dati elaborati dal servizio di metriche online Chartbeat, per una ricerca richiesta dallo stesso Senior Editor di The Atlantic, ben il 69% del traffico da social sarebbe da considerare 'dark', solo il 20% quello in arrivo da Facebook, il 6 per Twitter.

Con tutto ciò che ne consegue: la tendenza a sopravvivere sulle spalle dei social network, ad esempio - come già citato da Craig Kanalley, più in alto - diventerebbe qualcosa da dimenticare o approcciare in modo totalmente diverso, dato che - a livello operativo - quando si lavora sulle metriche Facebook, o si cerca di ottimizzare i contenuti per i suoi algoritmi o per i gusti del pubblico di Twitter, si sta lavorando soltanto per una fetta minoritaria del proprio pubblico, rispondente forse a poco più del 30%. «L'unico vero modo per ottimizzare la diffusione social - spiega Madrigal - è nella natura del contenuto stesso. Non c'è modo di condizionare email o messaggi privati. Non ci sono utenti esperti da contattare. Non ci sono algoritmi da capire». Uno scenario dove è ancora il contenuto ad essere 're'.