A tutto mobile per conquistare i millennial

Questa settimana in RoundUp: la lettura da mobile continua a diventare sempre più importante. Abitudini di un «nuovo consumatore iperconnesso» e soprattutto giovane: le testate millennial-oriented diventano sempre più numerose, e nel loro target di riferimento sono già più lette di molti giornali 'storici'. Ma cosa accomuna quasi tutti i nuovi siti di news? La pubblicazione di manifesti "critici" contro lo scenario giornalistico attuale, un'abitudine contestata da chi vorrebbe vedere 'meno parole e più fatti'.

di Vincenzo Marino

«Make it mobile»

In 10 anni, con la crescita di connessioni a banda larga, la circolazione dei quotidiani è crollata del 47%, e le entrate derivanti dalla pubblicità del 55%. Un mercato che si è praticamente dimezzato in un decennio, a fronte di un’innovazione tanto dirompente nei costumi quanto rivoluzionaria per la comunicazione e il giornalismo. È il dato dal quale parte il media critic Alan D. Mutter sul proprio blog questa settimana, in un articolo che indica il settore mobile come ultima - e inevitabile - frontiera alla ricerca della sostenibilità economica e della rilevanza pubblica. Le vendite di smartphone e tablet continuano a crescere, nuovi strumenti “intelligenti” si affacciano sul mercato, e così la domanda di news si diversifica, imponendo alle testate nuove sfide, nuove strade, che Mutter cerca di elencare: è necessario - secondo l'autore - fornire news sempre diverse e aggiornate per un utente abituato a consultare compulsivamente il proprio device (ossia garantire un’informazione in più al lettore per ogni lettura); è fondamentale, poi, che queste news siano concise e multimediali (con meno testo possibile), potenzialmente virali e utili per chi le legge. In una parola, più simili al concetto stesso di “mobile”: «Make it mobile, or you may not make it at all».

Proprio questa settimana due delle maggiori testate al mondo sono state al centro delle notizie sul giornalismo in ragione delle loro future innovazioni. Il Washington Post, per esempio, sarà parte di un progetto che - come molti avevano previsto all’alba dell’acquisizione della testata da parte di Jeff Bezos - dovrebbe integrare il giornale all’interno dell’ecosistema Amazon. Negli scorsi mesi, come riporta Brad Stone su Bloomberg Businessweek, il gruppo ha lavorato a un’app che in futuro verrà probabilmente pre-installata sul nuovo Kindle Fire (in uscita prima di Natale), e che dovrebbe “riscrivere” il giornale in un formato più simile a un magazine digitale. La proprietà è stata oggetto di qualche critica la settimana scorsa (ne abbiamo parlato qui) a causa di una presunta mancanza d’iniziativa che David Carr del New York Times, sempre in questi giorni, in realtà sostiene di non riscontrare («The Washington Post Regains Its Place at the Table»). In Gran Bretagna, il Telegraph ha deciso di abbracciare una forma piuttosto radicale di approccio al “digital first” che porterà a una rivoluzione redazionale: l’ufficio lavorerà principalmente per la versione online, producendo articoli che poi – una volta selezionati – verranno impaginati su quella cartacea, che in pratica sarà invece una sua derivazione pur mantenendo commenti ed alcune esclusive.

L’ascesa delle testate per millennial

Questa continua crescita del settore mobile (di cui abbiamo parlato più volte in questi mesi) attrae ovviamente, per larga parte, il pubblico giovane - i cosiddetti millennial, che allo stato attuale rappresentano il 30% del pubblico Internet americano. È per questo che siti di news a loro dedicati, o che comunque riescono a declinare le notizie in un formato a loro più familiare, si godono il loro momentum che che questa settimana Ken Doctor analizza per NiemanLab. Ci sono le schede di Vox, l’intrattenimento onnivoro di BuzzFeed, l’ossessiva ricerca del target di Vice, il neo-entrante Fusion (che si è appena assicurata le prestazioni di Alexis Madrigal di The Atlantic): tutti siti che guardano a quel mercato con risultati diversi ma con lo stesso spirito: garantire un reporting multimediale, riconoscibile, e - appunto - mobile, investendo su native advertising, social network e pubblicità video. Una crescita che si è consolidata negli ultimi mesi e che ha portato alcune di questi siti, come BuzzFeed e Vice (che proprio in questi giorni ha annunciato un accordo con Skype) a dominare nel comparto 14-34 in fatto di visualizzazioni: le visite uniche “millennial”, per loro, superano il 50% del totale, il 10% più di Guardian e Time, ben al di sopra di corazzate “legacy” come New York Times, CNN e Wall Street Journal (attorno al 30%).

Questo movimento legato a video, social e mobile riflette chiaramente le abitudini del «nuovo consumatore iperconnesso» - spiega David Brown, esperto di content marketing - e cerca di capitalizzare su un tipo di contenuto affine a una generazione «disinteressata rispetto alle istituzioni» (a riguardo, utile la lettura di questa analisi del Pew Center) ma non per questo totalmente indifferente alla realtà circostante (a riprova di questo ci sarebbero i buoni dati dei giornali locali, sempre per la stessa fascia d’età). Si tratta di un nuovo tipo di lettore, calato in un nuovo mondo e con nuovi strumenti: non basta parlare con la lingua dei millennial, ma si tratta di reinventare l’intero processo. Qualcosa che in Belgio, a Le Soir, pensano di aver compreso: l’Editor in Chief del principale giornale belga, Didier Hamann, ha spiegato questa settimana sul sito del World Editors Forum la sua rivoluzione “generazionale”. Di fronte alla crescita inesorabile dell’età media dei lettori di giornale, Hamann ha cercato di svecchiare la propria readership partendo dalla “mano d’opera” interna, e cioè assumendo giovani per cercare di invertire quella che definisce age pyramid: «Per capire quali argomenti interessano ai giovani, e scrivere in modo per loro attraente, era importante coinvolgerli dall'altra parte - la nostra - in modo da parlare meglio agli altri giovani».

Basta col “futuro del giornalismo”

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Molte di queste nuove testate, peraltro, partono spesso con l’intenzione di “rivoluzionare” il contesto giornalistico, muovendo critiche nei confronti dello scenario dominante (su questo e altro, da leggere «Cash and Anxiety on the Weird New Internet» di John Hermann su The Awl). La tendenza era stata notata a fine settembre da Nikki Usher sulla Columbia Journalism Review, in un pezzo dal titolo «Startup site manifestos are press criticism»: non c’è nuova testata che non parta, appunto, da un manifesto programmatico critico nei confronti del panorama giornalistico in cui si cala - il video di presentazione di FirstLook (il gruppo di Pierre Omidyar di Ebay che attualmente pubblica The Intecept di Glenn Greenwald); le promesse di Upshot, la colonna “visual” del New York Times; il video in cui Ezra Klein presenta Vox come «vegetable journalism» contro la sovrapproduzione informativa (ne parlavamo qui); la «volpe» di Nate Silver. Una tendenza evidente quanto quasi inevitabile, segnala Usher - lo stesso New York Times, nel 1851, esordì in edicola con un articolo dal titolo «A word about ourselves» con l’intenzione di garantire un giornalismo «decisamente superiore» rispetto quello già esistente.

Questa settimana David Cohn (ex Chief Content Officer di Circa) è tornato sull’argomento, definendo questi manifesti una sorta di catarsi psicoanalitica, come a voler dire a se stessi, cercando di convincersi, di voler far meglio dei propri padri. «Basta manifesti sul futuro del giornalismo», scrive Cohn, «ma lasciate che a parlare siano i vostri prodotti»: meno parole e più fatti, in sostanza, in attesa che le tabelle di Vox, i numeri di FiveThirtyEight e il lavoro investigativo di FirstLook rappresentino l’esempio pratico di come si deve imparare a fare giornalismo oggi. Un messaggio in un certo senso simile a quello che proviene da un post di David Higgerson di Trinity Mirror, questa settimana: alcuni giornalisti – spiega – passano ore a chiedersi come sfruttare al meglio gli algoritmi di Facebook, oppure se assecondare il suo sistema di priorità nelle bacheche sia buono o cattivo giornalismo. «Forget these questions and lets just deal with reality» - la risposta, secondo l’autore, è semplicemente nei contenuti: più sono rilevanti per la propria comunità di riferimento e più avranno importanza per gli utenti, che saranno disposti a leggere, commentare, condividere e quindi - di conseguenza - amplificare il prodotto assecondando gli algoritmi della piattaforma. «After all, we’d all be up in arms if Facebook started telling us what we should be reading».