Proiezione della prima assoluta per l’Umbria del documentario Goor, di Alessandro De Filippo.
Goor racconta l’altro inteso come distorsione culturale e mediatica del migrante. Tema mai come oggi di grande attualità nell’Italia “invasa” - o arricchita - dai 28mila nordafricani che, dall’inizio del 2011 secondo dati ufficiali, sono giunti nel Belpaese lasciando la propria terra d’origine, per sfuggire alla guerra e alla povertà.
Documentario girato un anno e mezzo fa ma di grande attualità dopo gli avvenimenti di queste settimane richiesto e ripresentato con tanta insistenza. Il lavoro di De Filippo impone però una rottura del corto circuito mediatico che si genera quando si affronta la tematica dell’immigrazione: per parlare delle persone, dei disperati che approdano in Italia, il regista ha dovuto creare una fiction stereotipata e preconfezionata.
Goor non analizza gli sbarchi, ma ne ricostruisce uno per poi far spiegare ai migranti, i veri protagonisti, quello che c’è dietro, le loro vite, le loro storie.
Il progetto, spiega De Filippo, “è nato con la volontà di far raccontare la propria storia da parte di chi questa storia di immigrazione l’aveva vissuta davvero. E’ un frutto di un confronto, di un dialogo”. E in effetti nel documentario i migranti da “oggetto” delle cronache tornano ad essere soggetti con delle vite, dei loro problemi.
Lunga prima sequenza (12 minuti) di fiction, nella quale viene rappresentato una traversata in mare: l’ansia del viaggio, l’attesa, la tragedia per l’acqua che scarseggia a bordo, le paure ed infine la gioia per l’approdo sulla terra ferma. Fiction – verosimile al punto che i protagonisti affermano di aver realmente sofferto durante le 28 ore di riprese - squarciata dalla violenza e dalla ripetitività mediatica delle parole alle quali siamo ormai assuefatti: invasione, inarrestabile, minaccia, assedio, avvistamenti, clandestini.
E’ nella seconda fase del documentario che gli immigrati diventano i protagonisti: nessuno degli intervistati però, afferma il regista, è giunto in Italia a bordo di una barca né conosce persone giunte da noi via mare. E’ attraverso i loro racconti, le loro esperienze di vita, che lo spettatore va oltre gli stereotipi imposti dal racconto univoco dei media, va oltre le generalizzazioni popolari e i preconcetti: racconti di speranze, paure, simpatici aneddoti del proprio passato annullano ogni barriera, cancellano ogni diversità. E sono loro ad aprirci gli occhi sui paradossi burocratici usati come arma dalla politica: per ottenere un permesso di soggiorno valido 24 mesi un extracomunitario può attendere anche un anno, mentre per avere una carta d’identità valida 10 anni basta un giorno.
“La diversità deve essere una ricchezza, non una debolezza, in un mondo che sta cambiando velocemente, che grazie alle tecnologie diventa sempre più piccolo, non ha senso chiudersi e avere paura del diverso” afferma un giovane nordafricano intervistato, a testimonianza del potenziale arricchimento che per l’Italia potrebbe rappresentare una reale l’integrazione di persone che vengono da lontano.
La discussione conclusiva ha visto la partecipazione del regista, del mediatore culturale Alione Badara Gueye – uno dei protagonisti del documentario - , di Elena Parasiliti, direttrice di Terre di Mezzo e e Giuseppe Faso, direttore del Centro Interculturale di Empoli “Valdelsa”.
Una discussione che, partendo dalla spiegazione delle difficoltà incontrate nel raccontare un’esperienza non vissuta in prima persona, converge poi sul tema dell’informazione.
“Chi sono loro è la domanda che ci si dovrebbe porre. E’ questo il primo passaggio per capire che tragedia ci si trova di fronte”, dichiara Elena Parasiliti. Per un giornalista però, ammette Giuseppe Faso, “ è molto difficile rendere questa complessità in parole, ma la fuga dalla complessità a volte è eccessiva da parte di alcuni media che a volte sparano banalità ed ingenuità”.
Quella dei media è una rappresentazione talmente compressa che spariscono i volti, le parole, i gesti e le storie. “C’è una sorta di costruzione di una realtà parallela – secondo Faso - fatta dai politici e dai media a rimorchio. Lo si capisce quando, nel documentario, ci sono alcuni dialoghi sottotitolati in inglese: alcuni termini non sono traducibili in inglese. Cancellare la ripetizione dei termini, come viene fatto dai redattori o dalle maestre a scuola, porta negli articoli a scrivere ossessioni ridicole. Le uniche due eccezioni sono la parola clandestino, e il termine badante: per questi due termini stranamente la ripetizione non vale una sostituzione e lo si può ripetere quante volte si vuole. Queste sono parole fantasma, opache, fatte per coprire quello che c’è dietro: la storia, la realtà, il problema”. Alessandro De Filippo conferma di aver riscontrato questa difficoltà nella fase del documentario dedicata ai media dove era stato colpito dalla ripetizione della stessa formula, del sintagma bloccato riproposto all’infinito nei titoli. Formula che aveva l’effetto di trasformare le persone in numeri.
Per la direttrice di Terre di Mezzo l’informazione sociale ha un risvolto politico: “le conseguenze sono, inevitabilmente, sul piano politico, e questo porta ai cosiddetti pacchetti sicurezza e alle politiche repressive”.
Per questo la politica crea ad arte le emergenze come avvenuto a Lampedusa dove la rappresentazione dell’emergenza è stata impressionante perché si era deciso che l’isola andava sacrificata.
“La semplificazione e la rappresentazione dell’immagine degli sbarchi fa paura e serve a fare propaganda” afferma Giuseppe Faso. “E’ evidente che un extracomunitario con permesso di soggiorno temporaneo che arriva in aereo non fa paura a nessuno”.
Alessandro Ingegno