ATTACCHI, DROGA, TERRORISMO, SPIE: MITI, REALTA’ E CONFLITTI DEL GIORNALISMO CYBER

La seconda giornata del Festival si è aperta con una seguitissima panel discussion volta a spiegare la dimensione del cyber giornalismo, una realtà che ha assunto una notevole rilevanza negli ultimi anni. All’incontro, che si è tenuto presso la Sala Priori dell’Hotel Brufani, sono intervenuti Carola Frediani, Riccardo Coluccini, Raffaele Angius e Philip Di Salvo.

A chiarire le sfaccettature della terminologia specifica è stata la giornalista de La Stampa; invocando in suo aiuto il dio nordico Thor – un siparietto per scherzare sulla frequenza con cui viene scritta in modo inesatto la sigla del software di comunicazione anonima T.O.R – la Frediani ha proseguito la sua presentazione sdoganando la mitologia che è stata costruita intorno al Dark Net e al Deep Web, fenomeni diversi dal nome (erroneamente) interscambiabile, anche nel giornalismo di settore. Il Deep Web è davvero 500 volte più esteso rispetto a quello che noi tutti comunemente usiamo? E’ vero che viene utilizzato principalmente per diffondere materiale pedopornografico, per la compravendita di droga o per assoldare assassini e terroristi?

Queste realtà sono molto più complesse di quanto i luoghi comuni le possano descrivere, e hanno al loro interno anche fenomeni criminosi, come se ne presentano nel web dei “normali” motori di ricerca.

Nell’affrontare il tema della cryptografia – anche in questo caso è stato necessario un chiarimento per distinguerla dalle cryptovalute – la parola è passata a Coluccini, il quale ha riportato i rischi che si nascondono dietro l’insufficiente e inadeguata legge italiana sui ‘captatori indormatici’, termine che viene ritenuto dal giovane giornalista un eufemismo per celare il fenomeno dei malware di Stato. Inoltre, il testo approvato nel gennaio di quest’anno non tutelerebbe nella maniera più assoluta gli internauti, proteggendoli solo in caso di attivazione remota del microfono: in breve, atti illeciti come screenshot, trascrizioni, registrazioni di video o di immagini non sono previsti nella norma. Il motivo? Garantire la possibilità per associazioni intergovernative di continuare ad attaccare gli utenti. Al contrario, gli hacker, che nella visione comune sono personaggi loschi e incappucciati che amano rubare informazioni e password, utilizzano i propri mezzi per sorvegliare la rete, individuando le falle di sistemi con l’obiettivo di patcharle, ovvero di segnalarle a chi gestisce i server.

Come ha spiegato Raffaele Angius, grazie all’esempio della recente fuga di informazioni dalla piattaforma Rousseau del M5S, esistono ‘white hat’ e ‘black hat’, hacker che seguono l’etica del proprio ruolo e quelli che perseguono finalità criminose o di profitto illecito. Mai come in questo caso sembra lecito il detto “non fare di tutta l’erba un fascio”.

Infine, la parola è passata a Philip Di Salvo, esperto dei fenomeni di whistleblowing e leaking; l’autore e collaboratore di Wired ha evidenziato come il giornalismo si stia arricchendo di nuove fonti – appunto gli hacker, ma non solo – per perseguire il diritto di informazione che rende viva l’opinione pubblica. Ovviamente, è diventato necessario per le testate avere sia importanti competenze tecnologiche e di comunicazione, sia la forza di pubblicare testi che, per quanto di pubblico interesse, vengono spesso ottenuti illegalmente. Questa nuova linfa, tuttavia, alleva delle serpi nel suo seno, che possono trasformare un processo innovativo in un mezzo di disinformazione – WikiLeaks docet. 

Lorenzo Tobia