Quanto è grave il problema della censura giornalistica in Italia? In che misura questa censura è anche autocensura dello stesso giornalista nei confronti del proprio lavoro? Hanno discusso di questi temi, venerdì pomeriggio presso la Sala Raffaello dell'Hotel Brufani, due esperti giornalisti d'inchiesta: Emiliano Fittipaldi, dell'Espresso, e Fiorenza Sarzanini, del Corriere della Sera. Ha moderato l'incontro la giornalista di La7 Alessandra Sardoni.
Sardoni ha introdotto la discussione facendo riferimento a un “caso caldo” delle ultime 48 ore, l'intervista del giornalista Bruno Vespa a Salvo Riina, figlio del boss mafioso Totò Riina. Non era forse meglio che quell'intervista (andata in onda durante Porta a Porta) non venisse proprio trasmessa? Non sarebbe stata più opportuna una forma di autocensura da parte del giornalista?
“Non credo che la questione vada posta in questi termini”, ha osservato Sarzanini. “Il problema piuttosto è come è stata strutturata quell'intervista. Non è stato sbagliato fare quell'intervista, è stato sbagliato fare l'intervista nel modo in cui è stata fatta”. “Sono d'accordo”, ha commentato Fittipaldi. “Il problema è l'atteggiamento che ha avuto Vespa nei confronti dell'intervistato. Avrebbe dovuto intervenire commentando le bestialità mafiose proferite dal figlio di Riina, cosa che non ha fatto”.
Fittipaldi ha quindi analizzato più in generale lo stato di salute del giornalismo italiano relativamente alla questione della censura. “In Italia c'è un sistema diffuso che limita l'informazione mediante alcuni strumenti. Uno di questi sono le querele temerarie contro i giornalisti. Cito un caso personale: è capitato che l'ex direttore generale della Rai, Mauro Masi, mi querelasse chiedendomi un risarcimento di 60 milioni di euro per un'inchiesta che avevo scritto su di lui. Io poi ho vinto la causa, ma ovviamente quella cifra spropositata Masi non avrebbe potuto ottenerla, né da me né dal Gruppo Espresso, neanche nel caso in cui avessi perso. Querele di questo tipo servono però a mettere paura al giornalista, a esercitare pressione su di lui. In Italia purtroppo manca una legge che punisca chi si lancia in queste querele: bisognerebbe introdurne una, sul modello americano, che imponga chi querela e perde la causa a pagare una percentuale della cifra inizialmente richiesta al querelato, per esempio il 10%”.
“Un altro fattore che limita la libertà di informazione in Italia riguarda il meccanismo delle inserzioni pubblicitarie”, ha continuato Sarzanini. “Troppo spesso c'è conflitto tra l'interesse imprenditoriale e la libertà di stampa: è difficile condurre inchieste contro chi finanzia il proprio giornale attraverso inserzioni. I gruppi editoriali più grandi sono più tutelati, ma per chi è piccolo e dipende da queste inserzioni per andare in edicola il giorno dopo questo conflitto rappresenta un problema enorme”. “Altri fattori che costituiscono censura sono poi interni alle redazioni stesse”, ha osservato Fittipaldi “e sono per esempio i direttori troppo salottieri. Alcuni direttori di testate hanno molte amicizie nel mondo della politica e queste amicizie inevitabilmente finiscono per limitare la libertà dei giornali che dirigono. Tra i colleghi, inoltre, si registrano spesso forme di autocensura a causa delle loro rapporto con le fonti. Faccio il caso dei vaticanisti: da molti di loro certe notizie sul Vaticano non usciranno mai, ed è anche 'grazie' a questa loro autocensura che è stato possibile scrivere le inchieste che io e Gianluigi Nuzzi abbiamo scritto”.
“Queste forme di censura e di autocensura penalizzano in particolare il giornalismo di inchiesta, ma la responsabilità di questa situazione non è solo della categoria dei giornalisti e dei politici, che non hanno interesse a promuovere leggi che tutelino maggiormente la libertà di stampa. La responsabilità è anche dell'opinione pubblica. Spesso, infatti, i pezzi di inchiesta sono poco apprezzati anche dai lettori stessi, che a questi preferiscono articoli e contenuti più frivoli e leggeri”.
Daniele Conti