Come nasce uno scoop: blogger batte giornalista?

di Vincenzo Marino

Da poco più di una settimana i media di tutto il mondo sono impegnati nel racconto di uno degli scoop dell'anno, e con essi anche i commentatori e i magazine online solitamente concentrati sulle evoluzioni del giornalismodigitale e non. Proprio dal digitale questa notizia nasce e si propaga: grazie ai documenti forniti dall'ex assistente tecnico della CIA e collaboratore della società di consulenza Booz Allen Hamilton Edward Snowden siamo in grado di sapere, allo stato attuale, che la National Security Agency (NSA) controlla da almeno sei anni le comunicazioni online effettuate all'estero dai clienti dei maggiori service provider di Internet attraverso un sistema denominato PRISM. I dettagli di questa storia aumentano giornalmente - considerando che le slide fornite dalla fonte ai giornali non sono ancora state rese tutte pubbliche -, così come sono finora state prodotte le più diverse tesi sulla vicenda e testate e editorialisti si sono interrogati, dividendosi, sulla decisione del 29enne, il cui giudizio morale va dalla censura senza repliche alla glorificazione (in questo nostro notebook su Spundge trovate tutto l’occorrente).

Come nasce uno scoop

Una storia come quella di PRISM, quella della sua costruzione, i primi contatti, gli sviluppi investono molto del settore giornalistico. Da quanto appreso finora, Snowden avrebbe avvicinato la videogiornalista Laura Poitras (specializzata in questioni attinenti alla sorveglianza e alla libertà di stampa) via mail, chiedendole di spostare la conversazione su strumenti più sicuri. In un'intervista a Salon, Poitras spiega di aver serbato qualche dubbio in merito alla storia, decidendo poi di mettersi in contatto con Barton Gellman del Washington Post e Glenn Greenwald del Guardian per avere conferme. Greenwald in particolare sarebbe stato contattato - stando a quanto reso a Calderone sull'Huffington Post - anche separatamente dall'ex collaboratore della CIA, che peraltro, secondo il New York Times, avrebbe faticato non poco (il Times usa il termine «frustrated») a far capire la portata dei documenti al giornalista, restio ad accettare 'le regole del gioco' e seguire una serie di cautele di carattere tecnico delle quali Snowden si era raccomandato - come l'utilizzo di un programma di crittografia per comunicare.

Charlie Savage sul New York Times aggiunge il particolare di un incontro «clandestino» di dodici giorni fa a Hong Kong, fra Greenwald, Laura Poitras e Ewen MacAskill, un reporter del Guardian. Diversa la storia per Gellman del Washington Post (col quale ha vinto due Pulitzer): contattato dalla videomaker, avrebbe poi lavorato sul pezzo mantenendo un basso profilo e sottoponendolo a diversi membri della redazione. Solo di recente, però, gli sarebbe quindi giunta voce («footsteps», letteralmente) di una possibile pubblicazione dello stesso scoop su un’altra testata, molto probabilmente imbeccata dalla stessa fonte, decidendo così di forzare i tempi per la messa online - sebbene avrebbe preferito, per sua ammissione, «almeno un giorno o due» in più. Il pezzo, uscito 20 minuti prima di quello di Greenwald per il Guardian (che intanto aveva già bruciato tutti sul caso Verizon che ha fatto da preludio a tutto l’affaire NSA) sarebbe stato modificato - non ampliato - successivamente. E non sarebbe stato steso con la dovuta precisione.

Il giornalismo e PRISM

Su ZDNet Ed Bott analizza la copertura del Washington Post citando alcune criticità dell'articolo. Uno degli esempi indicati è la sostituzione della frase che definiva la capacità della NSA di tracciare «movimenti e contatti di una persona nel tempo» in un più generico «tracciare obiettivi stranieri». Ma non solo: secondo l'autore del post, dal titolo «The real story in the NSA scandal is the collapse of journalism», ci sarebbero tutti gli elementi per credere che l'articolo assemblato dal Washington Post sia stato prodotto con eccessive «fretta» e approssimazione, come confermato dall'ex General Counsel della NSA Stewart Baker. L’ipotesi è che il giornale si sia trovato fra le mani un file PowerPoint di una fonte anonima e ci abbia costruito sopra un articolo intero, giungendo a conclusioni senza riscontri e ignorando la possibilità di ascoltare specialisti o portare prove a supporto. Ad avvalorare la tesi, la testimonianza su CNET di un ex funzionario anonimo che parla di report «non corretti, come fossero basati su una cattiva lettura del documento». Di certo, per una testata di blasone che ha fra le sue medaglie quella storica del caso Watergate, non un biglietto da visita per una nomination al prossimo Pulitzer, conclude Bott.

Ma non si tratta della sola questione di carattere giornalistico sollevata dal caso: in settimana l'Assistant Professor della J-School della Northeastern University Dan Kennedy ha ricordato quali possono essere i problemi legali nei quali possono incorrere testate che riportano notizie documentate da fonti che hanno agito illegalmente per acquisire informazioni. Nel farlo, il professore replica a un editoriale non firmato del New York Times che pur non attaccando Snowden per la sua scelta rammenta come l'ex dipendente della CIA debba «prepararsi a pagare il prezzo della disobbedienza civile». Dimenticandosi che potrebbero essere anche le stesse testate a pagarne le conseguenze. Il Primo Emendamento, ricorda, tutela la pubblicazione di documenti ottenuti attraverso la violazione di legge da parte di terzi, in osservanza a un forte spirito anti-censura, pur prevedendo tuttavia conseguenze successive alla pubblicazione - per i giornali come per le fonti. È un argomento sul quale bisogna tenere alta l'attenzione, ricorda l'autore: in un momento in cui il 56% dei cittadini intervistati dal PEW Center ammette di non aver alcun problema con questo tipo di intrusioni, difficilmente l'opinione pubblica si potrà schierare dalla parte dei whistleblower e delle news organization che lavorano con loro: se Snowden è in pericolo, conclude Kennedy, «lo siamo tutti noi».

Blogger batte giornalista

L’ex dipendente CIA si sarebbe infatti fidato della condizione 'esterna' di Greenwald rispetto all'editoria classica, e per le sue posizioni sulle tematiche civili: blogger di fama e attivista della Freedom of Press Foundation insieme a Laura Poitras, Greenwald sarebbe stato contattato nel febbraio scorso proprio in ragione della sua natura di outsider del giornalismo: è la tesi analizzata da Mathew Ingram su PaidContent, che parla - in assonanza col professore della New York University Jay Rosen - di miglior risposta all'annoso dibattito fra giornalismo e blogging, fra giornalista professionista e blogger - nel caso specifico avvocato e scrittore, quale era Greenwald prima di dedicarsi al giornalismo. Il New York Times stesso, sottolinea Ingram, nel parlare del caso PRISM e dei suoi protagonisti definisce Greenwald «un blogger», cosa che la Public Editor del Times ha criticato definendo svilente per l'opera dell'autore.

Una posizione esterna al circolo giornalistico, anche in termini geografici: ad accaparrarsi lo scoop sono stati il Guardian, giornale inglese - quindi meno coinvolto nelle dinamiche dell'editoria americana - e un autore residente in Brasile, paese nel quale Greenwald vive. Lo stesso Snowden, sempre stando a Laura Poitras, si sarebbe dimostrato scettico all’idea contattare media mainstream - in particolar modo il NYT - e avrebbe preferito rivolgersi al quotidiano di Londra per garantire una voce più oggettiva e meno coinvolta sulle vicende USA. Se c'è una lezione da trarre da questa storia, conclude quindi Ingram, è che il non essere parte dell'establishment mediatico sta cominciando a pagare. E che un blogger, in qualche modo, può fare la storia di un giornale e del giornalismo.

Le mire espansionistiche del Guardian

«Una storia molto americana, ma uno scoop molto inglese» esordiscono Ollie John e Kharunya Paramaguru su Time, in un articolo che indaga sul piano di espansione su scala globale del Guardian. Un progetto che nella notizia riguardante il controllo sugli utenti Verizon e l'affare PRISM di questi giorni trova una spinta considerevole, e che secondo il direttore Alan Rusbridger procede regolarmente. L'ambizione del giornale inglese di diventare un brand mondiale non è infatti un segreto: acquistato da pochi giorni il dominio .com (da sostituire al british co.uk), il Guardian parte comunque da edizioni digitali in America e Australia, e da una readership USA che arriva ormai a coprire un terzo dell'intero traffico. Una scelta obbligata, secondo Charlie Beckett: «Non credo faranno molti soldi in Gran Bretagna. Servono risorse alternative».

E i numeri gli danno ragione: con una circolazione cartacea più che dimezzata nell'arco di dieci anni, il Guardian è proprietà di un trust dal 1936, che gli assicura «indipendenza editoriale e finanziaria» ma che secondo il direttore esecutivo del Guardian Media Group Andrew Miller non durerà "più di tre o cinque anni". Di certo la storia dell'NSA ha una portata globale, e potrà aiutare la testata nella sua diffusione oltreoceano, ma il rischio - secondo George Brock, Professore della City University di Londra - è restare un ibrido, per il pubblico americano, tra il prodotto di nicchia e il media su larga scala, perdere il tratto distintivo dell'inglesità, aggiunge Beckett. «Tutti sanno com'è un lettore del Guardian: una specie di cinico sgranocchia-muesli».