Come si verificano le non-notizie?

di Vincenzo Marino

Come si verificano le non-notizie?

Il tema dei contenuti ‘virali’ creati da redazioni giornalistiche è uno dei più discussi di queste settimane (ve ne avevamo già parlato qui e qui). Il dibattito diffuso si è imposto dopo la nascita e l’ascesa di un gruppetto numeroso di siti viral oriented (Upworthy, Viralnova tra i tanti), con la riorganizzazione di testate tradizionali attraverso specifiche piattaforme web friendly, il propagarsi di bufale incontrollate e l’ibridazione di piattaforme come BuzzFeed in transizione verso il territorio del giornalismo classico. E proprio questa ambiguità, fra professione e semplice divertissement online, è alla base della discussione che ha trovato nuovi spunti in questi ultimi giorni. Eavi Somayia sul New York Times cerca di definire questo labile confine: quando la verità anima il lavoro di completamento e condivisione di un articolo allora si può parlare di “giornalismo”, ma perché un contenuto diventi virale, questa (la verità) non appare del tutto necessaria. È il caso di BuzzFeed e i tweet di Elan Gale, autore della ABC che ha pubblicato su Twitter la cronaca di un litigio su un aereo inventato sul momento, e che il sito di Peretti e Smith ha preso per vero e pubblicato in un post (ovviamente virale) senza verificare.

È solo uno dei diversi episodi degli ultimi mesi, che sembrano addossare tutte le colpe sul news outlet che non ha verificato la notizia, peccato ancor più grave per chi cerca di emanciparsi costruendo una redazione globale. In un mercato del consumo culturale nel quale il giornalismo - per definizione di Joshua Benton di NiemanLab - “Indica cose” ai lettori dicendogli cosa leggere, la scelta di cosa raccontare, e se farlo senza verifiche, diventa una discriminante essenziale. “Non si può parlare di bufala, per me - si difende infatti Gale, che come autore satirico - continua - ha semplicemente pubblicato quello che i suoi follower avrebbero subito percepito come una gag comica, un passatempo, comunque un’informazione da non certificare. La questione è inquadrata anche da Felix Salmon sul suo blog su Reuters.com, in un post che riassume perfettamente il problema nel titolo “Can you fact-check a twerking video?”. Salmon arriva al punto: quello che viene generalmente pubblicato in rete, sui social network, in genere non viene condiviso in ragione della sua “verità”, ma anzi - come aggiunge il “viral specialist” di Gawker Nathan Zimmerman - molto spesso impongono una sorta di “sospensione dell’incredulità”, un vero e proprio “buco” nel quale le news arrivano più difficilmente, essendo meno ‘gradevoli’ - e quindi meno condivisibili - di una foto o un video divertente. Il problema è che i giornali online stanno cominciando a investire su questo buco per riempirlo.

La costola viral

In questa corsa all’attenzione dei lettori, chi cerca di lavorare nell’industria mediatica digitale può facilmente scivolare nel territorio ibrido a metà fra ciò che la cultura Internet vorrebbe fosse news (il video di un twerk disastroso, per esempio, diventato tema per articoli su più siti) e la classica agenda setting giornalistica, che difficilmente può applicare i suoi metodi di verifica su contenuti di questo genere (per la verità, ricorda il post, il video in questione è stato effettivamente verificato). Salmon comunque ritiene che il dibattito sia solo all’inizio, e che sarà uno dei temi più discussi del 2014: d’altro canto - continua - mai come quest’anno è apparso evidente come per sopravvivere alla guerra delle news online sia necessario fare affidamento sui contenuti virali, tanto da portare vecchie testate come il Washington Post a costruirsi “il proprio” BuzzFeed (KnowMore) creando una costola social friendly di contenuti originali e potenzialmente virali, spesso richiamando gli articoli prodotti dalla testata madre.

Proprio questa settimana l’inglese Daily Mirror ha lanciato il progetto Ampp3d, un sito collaterale ispirato a esempi come BuzzFeed (appunto) e Quartz, specializzato in contenuti ad alta condivisibilità, impaginazione semplice e mobile, orientamento social, storie e titoli per la platea di Internet e lettura facilitata da tabelle e immagini. Il sito, del quale l’ex Guardian Martin Belam è direttore, è in qualche modo un evoluzione del suo UsVsTh3m, che ha cercato di fare un po’ da nave scuola inglese nell’oceano dei contenuti virali racimolando solo in novembre (a circa sei mesi dal lancio) qualcosa come 7 milioni di contatti unici. L’intenzione è portare in Ampp3d ciò che sul nostro sito abbiamo imparato, ha spiegato Belam a Justin Ellis di NJL, e non solo dal punto di vista della forma, del prodotto: settimane di esperienza hanno comunque fornito alla sua redazione un buon campionario di mesi di prova - e di dati - per capire cosa funziona e cosa no sui social network (più su Facebook per il traffico che convoglia, meno su Twitter che comunque definisce buzz-generator): è legittimo aspettarsi altri prodotti come test e quiz (il famigerato North-o-meter da milioni di like), videogiochi 8 bit creati e adattati all’attualità, ma “anche qualcosa di diverso” - assicura.

"Facebook vuole diventare il tuo giornale"

Considerata la loro natura e le ragioni per le quali vengono concepiti, questi siti-spalla orientati alla condivisione ricordano vagamente la costruzione “artigianale” di tanti diversi portali “social”, o quanto meno un’anticamera editoriale fra i social network effettivi e le news classiche (della “dipendenza da Facebook” per le testate digitali avevamo già accennato qui). Nel pezzo già citato di Felix Salmon viene citato lo schema della “valle dell’ambiguità” che abbiamo già riportato in questo post: una delle altre notizie della settimana è infatti quella di un nuovo cambio negli algoritmi di Facebook che, per attenersi allo schema di Analee Newitz, dovrebbe cominciare a penalizzare i contenuti alla sinistra del foglio, quelli 'leggeri'. In un articolo dei giorni scorsi di Mike Isaac su AllThingsD si apprende - da fonti a quanto pare anonime citate dall’autore - che nelle teste di Mark Zuckerberg e Chris Cox (vice presidente dell’area Product) ci sia l’intenzione di fare sempre più del news feed degli utenti una sorta di “giornale” con contenuti di “alta qualità”, una pagina da contemplare con ritualità quotidiana che enfatizzi ciò che gli utenti dovrebbero vedere, e non ciò che è effettivamente popolare in quel momento, sulla base di meccanismi ancora poco chiari (“Chi decide cos’è davvero di qualità?” si chiede Mathew Ingram su Gigaom).

Siamo generalmente abituati a pensare a Facebook come piattaforma di condivisione di status, foto, news, notizie divertenti e immagini buffe senza alcuna pretesa qualitativa. Questa specie di ‘programma’ denominato “Reader” vorrebbe invece invertire il feed degli utenti garantendo un’esperienza simile a quella di Flipboard, il software per tablet che seleziona le notizie delle proprie cerchie social e le impagina in modo leggibile (eventualità che però Facebook, aggiunge Isaac, ha rifiutato di commentare). Ciò che è certo, assicurano da Palo Alto, è che “Chris e Mark non hanno alcuna intenzione di fare di Facebook una specie di Tumblr”, ossia una piattaforma di social blogging con home feed cronologico, non particolarmente appetibile per gli inserzionisti e abitata da contenuti di qualsiasi genere. È forse per questo, spiega Isaac, che su Facebook non è ancora possibile pubblicare gif animate.

I giovani che leggono come i loro nonni

Eppure le preferenze di lettura dei cosiddetti millennial, la generazione di chi è cresciuto con Internet, non sembra fare molta differenza in fatto di letture di notizie da strumenti mobile rispetto a quanto facevano i propri genitori, o i propri nonni. È quanto emerge da uno studio del Pew Research Center secondo il quale i giovani preferirebbero ancora articoli testuali, impaginati su colonne alla vecchia maniera, rispetto ai prodotti multimediali: il 60% dei millennial interrogati dalla ricerca apprezzerebbe infatti una “print-like experience” sui propri tablet e smartphone, una tendenza più o meno uniforme fra le varie categorie che trova riscontri anche tra chi ha più di 40 anni. Un dato piuttosto sorprendente, se si pensa che per anni - come ricordato da Derek Thompson su The Atlantic - agli occhi di editori, giornalisti e inserzionisti la cosiddetta “Generazione Y”  era da considerare come una sorta di specie a sé, un prodotto della cultura di Internet che ragionava e consumava in modo del tutto peculiare.

Da qui anche la necessità di inventarsi prodotti - giornalistici e pubblicitari - che potessero adattarsi a questo nuovo tipo di pubblico. La ricerca, da questo punto di vista, lascia motivi d’ottimismo agli inserzionisti: i giovani nella fascia tra i 18 e i 29 anni sarebbero molto più disposti a interagire con le inserzioni su tablet (non per gli smartphone, dove le dimensioni rendono la cosa ancora una sfida a sé) per il 29% degli intervistati, contro il 12% della area 30-49 anni e il 7 dei 50-64. Intanto Sam Kirkland su Poynter si chiede se questa ricerca ossessiva verso il mobile e le piattaforme (e i contenuti) mobile friendly, non finiscano per frustrare i cari vecchi utenti desktop. “Navigo con un computer, con tastiera, mouse e senza schermo multi-touch”: in questa corsa all’oro mobile - si chiede Kirkland citando gli esempi dei nuovi siti di NPR e Wire - non rischiamo di abbandonare troppo velocemente, e perderci, chi usa la Rete semplicemente da browser?