Come stanno i giornali oggi? (E nel 2017?)

Questa settimana in RoundUp: con giugno finisce il primo semestre dell'anno, e arrivano i primi dati. Sconfortanti: FIEG e WAN-IFRA certificano - per Italia e resto del mondo - lo stato di forte crisi dell'editoria, PwC immagina un futuro tutto da scrivere per i media digitali.

Questa settimana in RoundUp: con giugno finisce il primo semestre dell'anno, e arrivano i primi dati. Sconfortanti: FIEG e WAN-IFRA certificano - per Italia e resto del mondo - lo stato di forte crisi dell'editoria, PwC immagina un futuro tutto da scrivere per i media digitali e il crollo per le produzioni su carta. Intanto il paywall continua a mietere adepti mentre qualcuno immagina strategie digitali e media corp dirompenti quanto la Tesla Motors.

di Vincenzo Marino

Come stanno i giornali (in Italia e nel mondo)


Questa settimana la FIEG (la federazione italiana degli editori) ha presentato a Roma il rapporto “La stampa in Italia 2010-2012”, uno studio che senza troppe sorprese analizza la crisi profonda dell’editoria nazionale in termini economici, pubblicitari e di diffusione. Ben note le ragioni rilevate nella ricerca: l'incapacità di sopravvivere a un settore così in forte mutamento, l'influenza della crisi economica, il mercato pubblicitario in flessione (il peggior anno degli ultimi venti) che gli preferisce il comparto televisivo e che nel digitale non vede ancora un'alternativa. I numeri parlano di un -9% dei ricavi nel solo 2012 per i quotidiani e una costante flessione in fatto di vendite, che negli ultimi tempi si è addirittura accentuata tanto da portare a un crollo dei lettori (per la prima volta, meno 14,8%). In una lettera aperta al Governo, la Federazione ha quindi proposto una serie di interventi volti a incentivare l'investimento nel settore attraverso il riconoscimento di crediti di imposta (per pubblicità, acquisto di carta, innovazione digitale e distribuzione) e il sostegno della domanda con buoni acquisto per determinate categorie sociali. Richiesto poi l'impegno a tutela dei contenuti editoriali in rete, vietando - si legge nel documento - «l’attività sistematica di riproduzione e di comunicazione di titoli, sottotitoli, occhielli e di ogni altra componente editoriale degli articoli di giornale».

Non emergono troppe sorprese, a livello mondiale, neppure dai dati contenuti nell'ultima analisi World Press Trend presentata in questi giorni dalla World Association of Newspaper and News Publisher (WAN-IFRA), se non alcune anomalie ‘anticicliche’ alle quali guardare con attenzione. Innanzitutto emerge il continuo e progressivo calo della diffusione dei giornali nel 'vecchio’ Occidente, con numeri che parlano di un crollo della circolazione del 6,6% nel Nord America (-13% dal 2008), e del 5,3% e dell'8,2% tra est e ovest Europa. Segno negativo anche per quanto riguarda la raccolta pubblicitaria, che dall'altra parte dell'oceano segna addirittura un -42% negli ultimi cinque anni. Più contenuti i cali nei paesi di Nord Africa e Medio Oriente (che a livello pubblicitario comunque guadagnano il 3% su base annua) e in America Latina (+9% invece le revenue dalle inserzioni). A dar speranza a delegati e uditori della conferenza WAN-IFRA di Bangkok è invece il dato del continente asiatico che presenta una circolazione in crescita dell'1,2% (+9,8 in 5 anni) e del 3,5% quanto a entrate pubblicitarie, grazie alla spinta di «Cina, India e Indonesia», secondo Pichai Chuensuksawadi, Editor In Chief del Thailand Post Publishing.

Un dato che non altera lo sguardo generale sul mercato, che in linea di tendenza presenta un calo drastico delle entrate da inserzioni pubblicitarie ben più repentino di quello della stessa circolazione fisica dei giornali. A tal proposito, uno dei dati più interessanti della ricerca mostra come, se da un lato la vendita delle singole copie sia crollata del 26%, a mantenere siano soprattutto gli abbonamenti che scendono 'solo' dell'8%. Numeri che in qualche modo spiegano una dei rilievi più curiosi della ricerca: in paesi come USA, Germania e Francia il tempo trascorso su contenuti di carattere informativo su tablet è uguale a quello impiegato per la lettura sui giornali di carta - un dato che trova indizi utili anche nella crescita delle sottoscrizioni dichiarate dal New York Times dovuta quasi esclusivamente all'introduzione del già più volte citato paywall.

L’infatuazione per il paywall

L'esaltazione del modello paywall è stato infatti una dei temi ricorrenti del World Newspaper Congress di Bangkok. Redazioni e gruppi editoriali sanno bene che su Internet la disponibilità a pagare è decisamente minata dalla possibilità di fruire contenuti competitivi e gratuiti, ma il sistema del Times resta l'oggetto dell'invidia di molti - anche di chi non potrebbe permetterselo, sottolinea il professore della City University of New York Jeff Jarvis – spinti da una sorta di cambio di paradigma. «L'impressione generale era che fosse impossibile invertire la cultura del tutto gratis (online)» - ha infatti spiegato Gilles Demptos, Director of Publications and Events per WAN-IFRA Asia - «ma la buona notizia è che la cosa sta cambiando», e che la disponibilità a contribuire economicamente alla qualità sia sempre maggiore, specie se si pensa ai 325 mila nuovi lettori e abbonati del NYT dal 2011 in poi (ossia dall'erezione del 'muro') e alla prossima adozione del sistema anche da parte del Washington Post, annunciata in settimana.

Il problema, comunque, esiste: sempre secondo Jarvis questo criterio, un successo per testate di rilievo, rischia di essere insufficiente. «L'infatuazione per il paywall», ha spiegato, incoraggerebbe le news corp a «replicare il loro vecchio modello industriale in una realtà nuova e digitale», ignorando invece uno dei maggiori problemi del mercato attuale: la mancanza di engagement. I giornali, secondo il professore americano, dovrebbero imparare a costruire relazioni più forti coi propri lettori, anche da attori ‘discontinui’ rispetto ai media tradizionali come Reddit, una community attiva e social-oriented da 70 milioni di utenti mensili (NPR, per esempio, si sta muovendo da qualche tempo in questo senso). Dal momento che in un nuovo territorio di conquista come quello della rete, nel quale i vecchi ‘marchi’ funzionano solo in alcuni casi (e il NYT è il caso più paradigmatico, contro quello del nuovo Newsweek), i benefici della sopravvivenza senza i costi ereditari delle vecchie redazioni comportano comunque una carenza di brand-identity e readership forte da guadagnare attraverso il coinvolgimento di nuove e vecchie fette d’utenza.

Come saranno i media nel 2017?


Saranno infatti gli utenti a determinare il futuro dei giornali e i prossimi modelli di business: è quanto emerge dall'analisi di PwC (PricewaterhouseCoopers) sugli scenari del settore mediatico da qui a quattro anni. La ricerca, che estende il proprio raggio d'azione a tutto il settore digitale, immagina un 2017 dei media in cui proprio gli utenti - sempre più consumatori o prodotto degli inserzionisti, sempre meno lettori - condizioneranno il mercato con nuove abitudini, nuovi desideri commerciali: un aspetto dominante – sottolinea PwC - la richiesta sempre crescente di contenuti dove e quando gli user li desiderano, il controllo assoluto sulla fruizione del prodotto (esemplare il fenomeno Netflix, in questo senso) perché è solo e soltanto «connesso al consumatore, che davvero detiene il controllo». Certo, un’offerta così spaventosamente ampia potrebbe portarlo all'indecisione, all'incapacità di giudizio, ma il fenomeno - rileva la ricerca - può essere l'opportunità per le company di fare da filtro e aiutarli a navigare, scoprire e scegliere tra un'infinità di contenuti.

Più offerta su più supporti, che vuol dire sempre più incertezza dal punto di vista pubblicitario: la chiave di lettura del 2017, sempre secondo il report PwC, sarà l'attenta analisi dei dati e delle metriche multi-piattaforma, così da trarre il maggior guadagno possibile dall'ormai conclamata ascesa della consultazione di contenuti in modalità second screen (guardare la tv twittando da tablet, per esempio). Da qui la necessità di reinventare i propri prodotti, e modularli secondo il loro utilizzo perché «content» resta sempre «the king», ma bisogna sempre capire come impaginarlo, impacchettarlo e venderlo. Il report, per concludere, non lascia comunque troppe speranze ai vecchi attori: la crescita delle entrate da inserzioni pubblicitarie digital dovrebbe arrivare al 37% nel 2017, e la carta (giornali, magazine, libri) crescere solo meno di un punto percentuale.

Qual è la tua strategia digitale?


È chiaro che in un contesto del genere diventa essenziale lavorare su una strategia digitale ben studiata, che permetta di traghettare il proprio gruppo attraverso la crisi e indicare contemporaneamente un'alternativa alla rivoluzione in atto. Il problema, spiega Alan D. Mutter in un post su Editor & Publisher dedicato al tema, è che non ne esiste una: l'approccio - suggerisce - è pensare a questo mercato come a un’entità «cinetica», in eterno mutamento, che rischia di non avere più punti di riferimento in qualsiasi periodo dell'anno e da lì per sempre, a prescindere dalle proprie scelte: l'introduzione sul mercato tecnologico di un «nuovo iCoso», continua, può essere influente e inaspettatamente decisiva quanto lo sono stati iPhone e iPad sei e tre anni fa, finendo col riscrivere i media per come li conosciamo.

L'idea è quindi quella di continuare a fare i conti con l’evoluzione tecnologica, col mutamento delle aspettative e dei gusti degli utenti e col modo in cui cambiano gli investimenti, tenere il polso di questi tre fattori e analizzare scientificamente il mercato senza aver paura di trovare nuovi mercati più fortunati, e così investire in side project a costo di «cannibalizzare» il business esistente (l'esempio citato da Mutter è quello del Boston Globe col sito Monster.com). L'importante – conclude, in questa serie di suggerimenti per il futuro e la sopravvivenza digitale delle media company - è continuare a provare, con creatività e coraggio, testando nuovi prodotti, ascoltarne i feedback e correggere o ritirare appena possibile. E così andare avanti, in un ciclo d’iterazione necessario.

Chi produce l'auto elettrica dei media?

È la ricerca del prodotto perfetto, in grado di cambiare per sempre i connotati del proprio mercato di riferimento, e riscrivere le regole del gioco. Mathew Ingram questa settimana si chiede se sia possibile trovare un equivalente della Tesla Motors nel settore mediatico. Tesla è l'azienda automobilistica che più ha innovato - e messo alla prova - l'intero panorama automobilistico americano, grazie alla produzione di auto elettriche di successo in un settore da sempre ostile. Ma esiste, si chiede Ingram, una figura dirompente nei media quanto Elon Musk (il fondatore della casa automobilistca) lo è stato per il suo 'terreno di gioco'? La prima risposta che l'autore si dà è «Huffington Post», trattandosi della cosa più vicina ai vecchi modelli (le testate online, così come le semplici auto per le Tesla Motors) ma a suo modo rivoluzionario.

HuffPost, suggerisce Ingram, ha ribaltato l'opinione di chi non credeva possibile reggersi sul lavoro gratuito di centinaia redattori (o blogger) né sulla gratuità dei contenuti, il fatto che i lettori non avrebbero apprezzato la natura di aggregatore, l'impossibilità di costruirsi un audience tanto forte e ampia in così poco tempo, così come quella di evolversi da viral-media a sito dalle credenziali prettamente giornalistiche (nel 2012 HuffPost ha vinto un Pulitzer). Non ultimo, il gruppo ha creduto fortemente nella «scienza» dei viral content, grazie all'analisi dei dati e all'implementazione di tool specifiche e innovative. Eredità raccolta in questi ultimi tempi da BuzzFeed, non a caso capeggiata dall'ex co-fondatore di Huffington Post Jonah Peretti. Che sia proprio lui, conclude l'autore, l'Elon Musk dei media? E che abbia bisogno di incentivi statali sull’acquisto di carta?