Crisi dei giornali: c’è poco da salvare, tutto da re-inventare

di Andrea Iannuzzi - dal blog PuntoNave

Photo by Ed Yourdon via Flickr

Esistono due tipi di approccio per affrontare la crisi dell’editoria: quello tattico, che cerca di garantire la sopravvivenza di un’industria dissanguata dall’emorragia di ricavi (di vendite e soprattutto di pubblicità). E quello strategico, che nel frattempo cerca di immaginare scenari e percorsi alternativi, senza alcuna garanzia di successo.

Se fossi un editore, probabilmente mi preoccuperei di trovare il giusto mix di tattica e strategia, ben sapendo che si tratta di un compito molto difficile, se non altro per guadagnare attraverso la tattica il tempo necessario a sviluppare soluzioni strategiche senza soccombere. Ma per mia fortuna (o sfortuna) io mi occupo di giornalismo, non di editoria. E di giornalismo voglio parlare.

Un esempio di approccio tattico è quello che sta accadendo oggi in Italia dove, tra rinnovo del contratto di categoria, fondo governativo di sostegno al settore e polemiche sull’equo (o iniquo, a seconda dei punti di vista) compenso dei freelance, ci si occupa dell’hic et nunc di una professione che, fino a poco tempo fa, si illudeva chissà perché di non essere sfiorata dagli stravolgimenti che l’era digitale ha provocato per esempio all’industria musicale, alle agenzie di viaggio, a qualunque settore merceologico toccato dai processi di globalizzazione tecnologica e buoni ultimi ai tassisti.

Quanto alla strategia, credo che il paradigma per ogni redazione, in questo momento, sia il citatissimo Rapporto sull’Innovazione del New York Times, che trovate a due clic da qui se avete la pazienza di leggere questa riflessione di Mario Tedeschini Lalli.

Ma proprio partendo dalla situazione del New York Times c’è chi sta cominciando a spingersi oltre e a chiedersi cosa accadrebbe se i manager ai piani alti dell’edificio di Renzo Piano a Manhattan decidessero di sospendere la pubblicazione cartacea quotidiana, limitandosi solo a stampare la famosa (e corposa) edizione domenicale, concentrando il resto delle risorse – umane, economiche, progettuali – sul digitale.

In particolare, questo post di Steve Outing affronta con notevole anticipo rispetto alle previsioni il tema della cosiddetta "ultima copia del New York Times".

(*correzione: in una versione precedente di questo articolo, questa profezia veniva erroneamente attribuita a Philip Meyer e al suo testo The Vanishing Newspaper del 2004. In realtà si tratta di una semplificazione giornalistica successiva, come potete leggere qui).

In realtà, la complessa analisi di Outing – che tiene conto di tutte le controindicazioni di uno spostamento radicale sul digitale, a cominciare dalla difficoltà di sostenersi economicamente – fonda la sua “realizzabilità” proprio sul mantenimento dell’edizione domenicale cartacea, che secondo lui garantirebbe comunque un flusso di entrate pubblicitarie ma costerebbe molto meno in termini di risorse umane (e non solo).

Oggi però c’è chi si spinge anche oltre. Nei giorni scorsi lo studioso di media Clay Shirky ha ingaggiato un acceso dibattito con alcuni suoi colleghi accademici sul tema “morte della carta”: in questo post di Vincenzo Marino per International Journalism Festival ne trovate un’ottima sintesi in italiano, con tutti i link alle fonti originali.

Per chi non ha voglia di cliccare, Shirky sostiene che sia un inganno, dannoso soprattutto per le nuove generazioni che si affacciano al giornalismo, illudersi e illuderle che la carta stampata possa avere un futuro. E porta come esempi alcuni tentativi di far rivivere dei giornali, salutati con entusiasmo ma poi naufragati nel giro di pochi mesi.

Il dibattito è aperto, fare gli struzzi non serve, così come sarebbe sciocco negare l’evidenza che – a tutt’oggi – il giornalismo “all digital” fa molta fatica a sostenersi. Al riguardo, consiglio la lettura di questa “confessione” di Marco Alfieri, ex inviato della Stampa che ha scelto di “saltare il fosso” per andare a Linkiesta: pur ammettendo tutte le difficoltà, compreso il rischio che Linkiesta debba presto chiudere i battenti, Alfieri dice di non essersi pentito, perché la strada intrapresa è senza ritorno e lui un pezzo importante di cammino lo ha fatto.

Nel frattempo, per dare il mio contributo alla discussione, ecco alcuni spunti che porto a casa dal GEN summit 2014, l’incontro del Global Editors Network che si è tenuto a Barcellona nelle scorse settimane.

1. I robot in redazione.

Asimov è tra noi? Parrebbe di sì e pazienza se qualcuno sogghignerà leggendo queste righe. Quelli di Narrative Science, società partner di Forbes, non ridono affatto e hanno già cominciato a collaborare con alcune testate per la produzione “automatica” di storie (articoli di senso compiuto) partendo dai dati statistici: cronache di gare sportive e resoconti economici vengono già prodotti in questo modo.

David Sancha, Words Without Writers, 11 June from Global Editors Network

Nella presentazione che vedete qui sopra, David Sancha (Words without writers) spiega cosa i robot possono fare – e già fanno – nell’editoria: scrivere notizie, occuparsi di editing, disegnare l’impaginazione e vendere pubblicità.

Alle inevitabili obiezioni sul giornalismo d’inchiesta, sulla verifica delle fonti, sull’importanza del fattore umano in un ruolo così delicato, la risposta è che tutto il lavoro di routine che viene affidato alle macchine significa tempo e risorse risparmiate dai giornalisti per dedicarsi alla loro attività principale. Inoltre, alcune funzioni come la verifica possono essere svolte con una regia umana e il supporto tecnologico dei robot.

2. Esempio virtuoso numero uno: Die Welt.

Jan Eric Peters, Die Welt, Inside Axel Springer: The Online to Print Experiment, 12 June from Global Editors Network

Jan Eric Peters, direttore di Die Welt, testata del gruppo tedesco Axel Springer, spiega in queste slide la trasformazione digitale del suo giornale: in 12 anni (dal 2002), si è passati da una redazione che confezionava solo la versione cartacea a una che oggi lavora a tempo pieno online e realizza l’edizione per le edicole “a valle” del processo giornalistico e produttivo, con una squadra dedicata di 12 giornalisti, non uno di più.

3. Esempio virtuoso numero due: The Washington Post.

Se negli ultimi anni il “faro” per la trasformazione digitale dei giornali è stato senza dubbio il Guardian, ora ho l’impressione che a raccoglierne il testimone sarà il Washington Post. Sarà forse l’effetto Bezos, ma le strategie e i progetti in corso, illustrati a Barcellona da Cory Haik, sono quanto di più innovativo si sia visto finora nel panorama dei cosiddetti legacy media.

La filosofia è, per certi versi, opposta a quella di Die Welt e punta sulla massima specializzazione: non esiste un unico modo di fare giornalismo buono per tutte le piattaforme. Ogni app, ogni device, ogni modalità di fruizione da parte del lettore necessita di forme narrative dedicate: le infografiche a sviluppo verticale pensate per lo scroll sullo schermo di uno smartphone; l’uso di Snapchat per seguire eventi; i Googleglass indossati e utilizzati dai giornalisti per raccontare il ricevimento alla Casa Bianca; una app del Washington Post pensata e realizzata esclusivamente per la fruizione da smartwatch; uno strumento chiamato Truth Teller per il factchecking in tempo reale dei video-discorsi dei politici (o di chiunque altro).
Non a caso, la struttura guidata da Cory Haik si chiama “Innovation Desk”.

Cory Haik, Inside Washington Post's Digital Strategy, 12 June from Global Editors Network

4. Il lettore è mobile, qual piuma al vento.

Siamo ormai passati dall’era dei “pull media” – nella quale si attirava il lettore verso il proprio prodotto preconfezionato – a quella dei “push media”, nella quale tocca a noi cercare di raggiungere ciascun lettore nei vari luoghi, fisici o digitali, in cui si trova. La conferma arriva dal Digital News Report del Reuters Institute (qui una sintesi in italiano).

In breve, i lettori sono sempre più mobili (nel senso che usano smartphone e tablet per informarsi), poco propensi a pagare per le notizie online (anche se alcune testate registrano incoraggianti trend positivi) e piuttosto “disordinati” nella loro dieta informativa, visto che l’accesso alle news avviene in maniera preponderante non attraverso le homepage dei siti ma soprattutto attraverso i motori di ricerca (specialmente in Italia) e i social network.

David Levy & Nic Newman, Reuters Institute Digital News Report 2014, 13 June from Global Editors Network

5. Il futuro? Tech first.

I cinque trend per il futuro del giornalismo illustrati da Amy Webb.

1. Robo-Journalism (ne abbiamo già parlato sopra).

2. Design “utente-centrico” (focalizzarsi sul consumatore, non sullo strumento). Le dimensioni contano, eccome. Le storie del futuro devono essere strutturate tenendo conto dei seguenti fattori: tempo, attivita, comportamento, predisposizione intellettuale ed emotiva. Tutto interagisce con “la notizia”: quello che il lettore sta facendo, dov’è, come si sta informando, in quale momento della giornata, quanto tempo ha a disposizione, quali sono i suoi gusti, il suo stato d’animo individuale e sociale. Teniamo presente che i contenuti possono andare ovunque e sempre.

3. “Schedificazione” (cardification). Le “cards”, cioè le informazioni a scheda, sono uno dei format di maggior successo nel mondo delle notizie “snackable” e mobili. Da Google a Twitter, ci si sta attrezzando per fornire contenuti facilmente fruibili e condivisibili anche in una piccola schermata.

4. Computing cognitivo (e predittivo). L’uso degli algoritmi, la profilazione, i cookies, la tracciabilità: oggi è possibile aggiungere informazioni pertinenti rispetto alla richiesta iniziale dell’utente, migliorando e accrescendo la sua esperienza cognitiva.

5. Giornalismo sperimentale. Abbiamo a disposizione strumenti tecnologici sempre nuovi per interagire con la realtà e non dobbiamo lasciarci sfuggire le occasioni che ci offronto. E allora possiamo per esempio immaginare un giornalismo fatto apposta per i “visori” tridimensionali, ultima frontiera dei cosiddetti “wearable devices”.

Ma più di ogni altra cosa, Amy Webb invita le aziende a diventare “tech-first”. È la terza fase dell’evoluzione digitale delle aziende editoriali: dal print-first dell’era pre-internet al digital-first dell’era internet al tech-first dell’era futura, nella quale sarà sempre più la componente di valore aggiunto tecnologico a fare la differenza. Per capire se siamo sulla strada giusta, dovremmo sottoporci al test F.U.T.U.R.E., acronimo che sta per Foundation (basi solide, supporto per andare avanti) Unique (valore di esclusività del progetto facilmente comprensibile dall’utente) Track (tracciabilità dello sviluppo del progetto attraverso i dati) Urgent (indispensabilità del progetto anche in un mercato che cambia) Recalibrate (flessibilità e capacità di ricalibrare il progetto a seconda dell’evoluzione e del contesto) Extensible (il progetto dev’essere scalabile e adattabile a ogni tipo di device presente e futuro).