La chiara anomalia italiana costringe ad incontri come questo, dove si cerca di guardare con occhio critico e obiettivo la situazione femminile nel mondo dei media, partendo dalla sua oggettiva differenza rispetto a quella degli uomini.
Sul palco – insieme al mediatore Luca Mastrantonio, de Il Riformista - Tiziana Ferrario, del Tg1, Flavia Perina, ex direttore del Secolo d’Italia, Caterina Soffici, giornalista e scrittrice, e Patricia Thomas, dell’Associated Press TV News.
Senza essere accumunate da schieramenti politici, le storie di queste donne giornaliste parlano di discriminazione: come nel caso della Ferrario, reintegrata al Tg1 - dopo aver vinto il ricorso per il suo allontanamento ingiustificato - ma confinata in fasce orarie poco visibili e quindi incapace di far rispettare appieno le sentenze giudiziarie; o come per Flavia Perina, privata del suo ruolo di direttore dopo aver agito in maniera alternativa rispetto ai vertici politici. Ha infatti schierato il giornale contro la candidatura delle veline, in occasione delle elezioni europee del 2009.
Le quattro giornaliste ripercorrono insieme le vicende dell’affermazione femminile nel mondo delle redazioni: negli anni ’80 c’era un atteggiamento quasi protettivo verso le poche donne presenti nei giornali. La professione ha poi visto crescere la sua componente femminile, ma le sue linee gerarchiche più alte rimangono essenzialmente prerogativa degli uomini. Con gli anni ’90 si diffonde un trend di ragazzine accolte redazioni per criteri più estetici che professionali: sono relegate, in molti casi, a trattare argomenti banali. Si è radicato un cambiamento culturale, un sottile fenomeno di “velinizzazione”, capace di opacizzare il confine fra giornaliste e soubrette. I ruoli di prestigio, per di più, si guadagnano molto di frequente in maniera relativa, come rispecchiamento del potere maschile a cui, per ottenerli, bisogna rivolgersi.
La Thomas – trasferitasi in Italia nel 1993 – ha potuto notare la discriminazione verso le donne da una prospettiva esterna: è rimasta stupefatta dall’utilizzo dell’ immagine femminile nei programmi televisivi e, in particolare, nelle trasmissioni sportive. La donna compare come semplice ornamento affiancato ai conduttori uomini. Sconvolgente le è sembrata la mancanza di un qualsiasi tentativo, da parte di chi detiene il potere, di mascherare quest’atteggiamento. Può farsi testimone di un abisso che distingue la realtà italiana da quella statunitense, dove non ci sono problemi legati al rapporto uomo – donna, ma dovuti se mai a un’eccessiva competizione femminile.
Non è di alcuna utilità avere un altro numero di donne nelle redazioni – come in qualsiasi altra professione – se sono disposte a rinunciare alla propria identità professionale per inseguire il potere, adottando modelli subdoli e estranei alla loro realtà. È sempre stato facile avere successo scegliendo un grande protettore, riducendosi a cortigiane, cercando una scorciatoia. Imbarazza però constatare come si riducano le possibilità di successo, per chi non sceglie questo percorso. Il ruolo delle donne nei media non può non proporre un rinnovato e diffuso sfoggio di competenze e responsabilità: solo così è possibile riconquistare una dignità non elitaria, dimostrare in che modo si intende essere realmente trattate. Appiattendosi sullo stile dominante, rispondendo all’atteggiamento del capo, ci si limita a sposare la disinformazione di massa e si rinuncia a trasmettere contenuti importanti.
Alle donne invece, troppo spesso, si riservano alte aspettative soltanto negli ambiti tradizionali, in una concezione familiare ancora vincolante: l’81% degli italiani, ad esempio, pensa che i bambini soffrano quando la loro mamma lavora e nell’immaginario collettivo non sempre il ruolo di buona madre non ostacola quello di buona professionista.
Un segno propositivo di riscatto è stato incarnato dalla grande manifestazione delle donne: un emblema di come, attraverso i ricorsi storici, un evento specifico diviene simbolo e scatena una reazione importante, forse inaspettata, nel popolo fino a poco prima spettatore assopito della società circostante. Il fermento è indubbio: il coraggio e l’intraprendenza sono ingredienti necessari ad allentare gli stereotipi. Si può conquistare una credibilità – che non ha nulla a che fare con l’essere puritane – ma nella consapevolezza di come il prezzo sia alto: bisogna avere la forza di schierarsi, di far sentire la propria voce.
Una sfida che nel mondo dell’informazione risponde ad una necessità sempre più urgente. Perché il popolo può esercitare la propria sovranità solo se è bene informato. E per informare, per rifiutare di passare quel moderno “soft-porno” - che ha il massimo risultato con il minimo prezzo, in termini di soldi e creatività – per rispettare, insomma, la propria dignità di giornalista, non si può rimanere invischiati in questioni di genere. E sarà l’esperienza personale a intessersi nel prodotto editoriale, a determinare il valore aggiunto del lavoro di un buon professionista, indipendentemente dal fatto che sia uomo o donna.
Letizia Giugliarelli