Giornalismo e corporate communications: amici o nemici?

Un panel di esperti della comunicazione e coordinato da Luca Conti di Simplicissimus Book Farm si interroga e viene a sua volta interrogato dalla sala e dal pubblico di twitter sull’impatto dell’era “digital” sulla comunicazione d’impresa.

Il principale punto emerso, per usare la metafora di Mafa De Baggis, esperta di comunicazione sui social, é che un tempo la comunicazione d’impresa consisteva nel impacchettare un messaggio e lanciarlo oltre al muro. Esistevano principalmente due canali per farlo: comprare spazi pubblicitari o cercare di carpire il favore dei giornalisti. Fatto sta che il pubblico restava al di là di quel muro che oggi, invece, è venuto giù.

Questa rivoluzione del digitale (i social, i blog, i siti interattivi...) comporta per le imprese enormi opportunità ma anche enormi sfide.

Da un lato, come rileva Simona Panseri, Direttrice comunicazione per Google Italia, lo “story telling” - ovvero creare un racconto e un’identità d’impresa tramite tutti i canali disponibili - ha un’enorme potenzialità per le aziende, anche molto piccole. Ad esempio, è uno strumento potente per il made in Italy, ovvero la piccola o media impresa italiana che produce prodotti di qualità ma spesso non ha le conoscenze o i mezzi per farsi conoscere al di là del proprio piccolo bacino di clienti locali. Sul blog eccellenzeindigitale.it sono raccontate le storie di aziende “di nicchia” che hanno globalizzato il proprio mercato grazie alle possibilità offerte da internet.

Manuela Kron, direttrice corporate affairs di Nestlé, racconta di come i social moltiplichino i punti di contatto con una grande entità anonima come un’azienda del calibro di Nestlé. In questo modo, tolgono a chiunque la possibilità di dire “non sapevo chi chiamare”, un modo implicito di incolpare la scarsa trasparenza dell’azienda per articoli faziosi o falsi. “Se ci scrivete”, assicura Kron, “noi vi rispondiamo. In meno di un giorno”. Questa è sicuramente una novità per le aziende- un contatto diretto con i clienti, che rende possibile circolare contenuti nuovi che contribuiscono ad un’immagine positiva dell’azienda. Sapere che Nestlé investe in ricerca su come migliorare l’alimentazione dei ragazzini (risposta: fateli cucinare con voi), è sicuramente una buona notizia che non avrebbe necessariamente attirato l’attenzione di un giornalista. Abbattere il muro significa poter comunicare di più.

Significa anche ricevere di più. Il mestiere della comunicazione cambia, diventa l’impresa - titanica forse, interessante sicuramente - di sintetizzare tutte le richieste dei clienti, in alcuni caso contraddittorie, e tradurle in un programma, un prodotto, un servizio. È una co-creation coi clienti involontaria, spiega De Baggis, uno scambio nei due sensi che impatta enormemente il mestiere del comunicatore aziendale.

Ovviamente la caduta del muro alza un polverone: non è una transizione facile. Comunicare su di un sito o un blog significa circolare allo stesso tempo gli stessi contenuti per giornalisti, competitori, e clienti, il che non è sempre desiderabile. Inoltre i brand manager hanno la tendenza ad usare i social per riprodurre contenuti ‘antichi’ ed autoreferenziali- gli spot, le pubblicità- che non creano alcun interesse presso i clienti. Ciò che essi vogliono è una storia, una narrativa sul prodotto, che li invogli ad usarlo.

Una volta capito questo, si è già a metà del cammino, secondo De Baggis.

Inoltre, come nota Kron, i social comportano enormi rischi per un’azienda: avere un canale in più (o molteplici) significa rendersi identificabili e disponibili, ovvero creare un’aspettativa di risposta pronta, coerente, e adeguata. Ma rispondere a tutte le domande (spesso inopportune o aggeessive, o semplicemente troppe) non è sempre possibile. Richiede uno sforzo considerevole ed è la sfida attuale per ogni impresa.

Ma nonostante tutti i necessari adattamenti, qual è la bottom line della comunicazione? Quali punti fissi rimangono dopo il crollo del muro?

Per Panseri, é semplice: non si possono dire cose non vere - una litote che non significa “possiamo dire tutto quanto sia parzialmente vero, quasi vero, semi vero” - ma al contrario, bisogna essere sempre certi che quel che racconti corrisponda ai fatti. Fact checking diventa un obbligo per ogni ufficio comunicazioni esterne.  Anche perché le bugie hanno le gambe corte, e su internet cortissime.

Paola Tamma