Quale ruolo possono svolgere le chat apps nel giornalismo contemporaneo? Quali opportunità offrono al giornalista i nuovi servizi di messaggistica mobile? Hanno provato a far luce su questo tema Colin Agur e Valerie Belair-Gagnon dell'Information Society Project (Yale Law School) insieme a Pierluigi Perri, avvocato e docente di Informatica Giuridica Avanzata presso l'Università degli Studi di Milano. L'incontro si è svolto giovedì mattina presso il Centro Servizi G. Alessi di Perugia.
“Le chat apps stanno guadagnando un ruolo sempre più importante nell'esercizio del mestiere di giornalista”, ha esordito Belair-Gagnon. “In particolare tra i freelance, si sta registrando un notevole incremento del loro utilizzo. Queste apps, come FireChat, Whatsapp, Messenger, Telegram, Signal e altre consentono un'interazione maggiore tra il pubblico (le fonti) e il giornalista, e di conseguenza aprono vasti spazi per il reporting di storie di interesse pubblico”. Belair-Gagnon ha evidenziato come l'effetto-rete che questi software creano li rendano adatti soprattutto per raccontare i movimenti di protesta politica, fenomeni fluidi e dall'evoluzione estremamente rapida. Per esempio, nel caso delle proteste pro-democrazia di Hong Kong del 2014, i giornalisti usando le chat apps hanno potuto interagire in prima persona con gli attivisti e quindi ottenere informazioni a cui altrimenti sarebbe stato difficile accedere. Sta poi al giornalista, però, saper sfruttare nel suo reporting questo maggior numero di fonti con cui entra in contatto, evitando di adagiarsi sulle tradizionali “cattive abitudini” e pigramente prediligere l'uso delle abituali, “sicure” poche fonti. Agur ha quindi parlato dei limiti di questi strumenti di messaggistica. “Il primo limite sono le conoscenze tecniche di cui dispone il singolo giornalista. Ogni app ha uno specifico livello di sicurezza, livello che, peraltro, non è definitivo, stabile, ma in costante evoluzione. Il reporter deve capire qual è il grado di 'apertura' della chat apps che sta usando, per sapere quanto è sicura la sua comunicazione con la fonte. Un secondo limite è costituito dalla conoscenza, da parte del giornalista, del linguaggio adottato dagli utenti delle chat. La comprensione dello slang, dei simboli, delle frasi cifrate è essenziale per orientarsi nel flusso di rapide comunicazioni che tipicamente caratterizza i movimenti di protesta”. Bisogna inoltre sapere quali servizi di chat adottare a seconda dei contesti, ha continuato Agur. In certi momenti, per esempio, è opportuno spostare la conversazione con la propria fonte su canali più sicuri, come quelli garantiti da Telegram e Signal, per cercare di evitare che informazioni sensibili vengano intercettate da poteri repressivi. “Bisogna però ricordarsi che l'attività sul campo rimane comunque fondamentale per il giornalista, spesso non si può prescindere dal contatto in prima persona con la fonte”.
Perri ha trattato il tema da un punto di vista legale e deontologico, sottolineando l'importanza dei cosiddetti “privacy protecting behaviours”, quei comportamenti che il giornalista è tenuto ad adottare per tutelare l'identità delle proprie fonti. “Il giornalista deve sempre essere consapevole del fatto che ogni app ha un proprietario, e che per ogni chat app c'è un provider che eroga il servizio. In sostanza, oltre al giornalista e alla fonte, c'è sempre una terza parte che può raccogliere l'informazione. È dunque responsabilità del giornalista capire qual è di volta in volta il miglior strumento da utilizzare, segmentando di conseguenza l'utilizzo delle diverse apps”.
“Gli esperti del settore individuano tre elementi cruciali in fatto di sicurezza: hardware, software e fattore umano”, ha proseguito Perri. “Per quanto riguarda l'hardware, non sempre il device di ultima uscita è anche il più sicuro. Gli smartphone non nascono al fine di soddisfare le esigenze di sicurezza dell'utente, e spesso è necessario che per poterli utilizzare in modo più protetto sia l'utente stesso a intervenire modificando le impostazioni del proprio device. Relativamente alla parte software, il mio consiglio è “be paranoid”: Snapchat, per esempio, era nato con la promessa che l'informazione trasmessa potesse essere in seguito totalmente distrutta; a seguito di un'indagine è però emerso che il servizio eseguiva un backup delle conversazioni, “tradendo” quindi questa promessa. Il fattore umano, infine, è sicuramente quello più delicato. Il giornalista deve considerare le implicazioni legali delle chat apps: non tutte le informazioni raccolte attraverso di esse costituiscono notizie e possono quindi essere pubblicate”.
Daniele Conti