Il giornalismo che parla al cuore dei lettori

Questa settimana in RoundUp: il vignettista malese che rischia 43 anni di carcere per una vignetta, e lo stato della libertà d'espressione in Malesia; la storia di The Lo-Down, il giornale di quartiere del Lower East Side di Manhattan, che è ormai parte integrante della comunità e ha lanciato una campagna di crowdfunding che ha racconto il 40% dell'obiettivo in due giorni; lo stato del paywall e la corsa all'attenzione del lettore, da preferire al semplice "click".

di Vincenzo Marino

Il vignettista malese che rischia 43 anni di carcere

Nel febbraio scorso la polizia malese ha fermato per quattro giorni il vignettista locale Zulkiflee Anwar Alhaque, meglio noto come Zunar, per aver pubblicato tweet e vignette come questa:

Il disegno raffigura il primo ministro Najib Razak nei panni di giudice, mentre emette una “sentenza politica” contro il leader dell’opposizione Anwar Ibrahim, accusato di sodomia in un processo che i suoi sostenitori considerano ingiusto e infondato. Nella vignetta, un libro con la scritta “law” fa bella mostra di sé nella spazzatura.

“La tv e i giornali locali sono tutti controllati dal governo, ed è impossibile per loro discutere di questioni sensibili”, spiegava Zunar in un lungo reportage del Committee to Protect Journalists pubblicato questa settimana sui vignettisti intimiditi e le minacce contro la libera espressione. “Il governo teme che le mie vignette portino la gente a schierarsi contro di loro”.

La Malesia ha una lunga storia in fatto di censure, specie per quanto riguarda moralità pubblica e religione. Se musica, film e libri sono da decenni messi al bando o attentamente scrutati dal filtro ministeriale, in tempi più recenti il “Sedition Act” - un codice coloniale risalente al 1948 - è stato inasprito proprio dal governo Najib, che lo ha inserito in una più vasta riforma politica e ha cominciato a utilizzarlo come strumento di minaccia e censura nei confronti delle critiche giornalistiche e del dissenso politico.

Zunar rischia 43 anni di carcere, e le udienze del processo sono cominciate questa settimana: i suoi capi di accusa sono nove e comprendono sedizione e offese anti-statali. “In a corrupt regime, the truth is seditious […]. I will keep drawing until the last drop of my ink.”

Il giornalismo come utilità sociale

Anche se il giornalismo cambia, e si modella aderendo a nuovi strumenti e nuove esigenze, ci sarà sempre bisogno di testimonianze “che sottolineino gli abusi del potere. Svelare questi abusi è ciò che presidenti e dittatori temono di più”, scrive questa settimana Jorge Ramos su Fusion in “Of journalists and dinosaurs”. Così mentre l’editoria si evolve, i suoi principi restano gli stessi: “Credibility, independece, relevance, the ability to place news in context”.

Nel Lower East Side di Manhattan, a New York, un gruppo di persone ha messo in piedi un giornale online e un mensile per la propria comunità, The Lo-Down.

Ne scrive Josh Stearns questa settimana su Medium: i creatori del progetto sono stati capaci di fare leva sulle passioni delle persone, ma anche sui loro bisogni specifici e la presenza così ravvicinata nelle strade della zona, per diventare rilevanti all’interno di una comunità circoscritta ma fedele.

Reportage, interviste, inserzioni, commenti, dibattiti: Lo-Down è in qualche modo la voce del quartiere, un abitato che ascolta fisicamente e che “sfrutta” - anche dal punto di vista economico - per incontrare di persona i propri lettori e finanziatori (banalmente, gli esercizi commerciali della zona), contribuendo alla conversazione pubblica.

Il caso, come sottolinea Stearns, permette alla redazione del giornale di enfatizzare a dovere l’importanza di una stampa libera e attiva nella vita delle persone, e di quanto la partecipazione sia cruciale, in uno scambio continuo: uno dei principi fondanti del Lo-Down è per esempio quello del “solution journalism”, affrontare temi pratici nella vita delle persone del luogo, per suggerire e stimolare soluzioni.

Capitalizzare sulla comunità attraverso il giornalismo e la relazione coi lettori è la base che ha permesso alla testata di lanciare una campagna di crowdfunding, che servirà a finanziare un progetto incentrato sulle difficoltà dei piccoli commercianti del circondario. La raccolta ha raggiunto il 40% dell’obiettivo nei primi due giorni, ed è attualmente al 58% - per un totale di circa 14mila dollari.


La sessione di Nicole He di Kickstarter a #ijf15, su come come lanciare una campagna per un progetto giornalistico.

Il paywall è già in crisi?

“La gente ora consulta le fonti più diverse”, spiegava Kevin Sutcliffe di VICE News alla platea del Retuers Institute fo the Study of Journalism, la scorsa settimana. “Ci si può aggrappare al concetto di attendibilità, ma non è più sufficiente. Bisogna essere lì, essere autentici”.

E se non tutti possono costruire una community come quella del Lo-Down e contare sul suo supporto, i mezzi per tenere in vita un’impresa giornalistica continuano a essere tanti, aderendo a vecchie e nuove linee guida.

Così se si scopre che listicle, aggregazione e contenuti “virali” erano concetti già noti - in qualche modo - nel giornalismo del 1800, nuove realtà stanno lavorando su metodi, strumenti e linguaggi nuovi. Come Quartz, il portale d’informazione economico-finanziaria di The Atlantic (di cui avevamo parlato qui) che sta cercando di fare della testata un’entità multipiattaforma, una specie di API che vive di sito e suoi verticali, la vocazione mobile tramite app, messaggistica e newsletter, produzione social, syndacation ed eventi extra-internet - come spiegava Zachary M. Seward questa settimana in “The path ahead for the business site that’s reshaping digital news”.

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O come Vox, che attraverso l’elaborazione di un preciso stile editoriale sarebbe diventato - secondo la definizione di Tressie McMillan Cottom, l’Urban Dictionary del giornalismo, il vocabolario moderno dei fatti pensato per spiegare le principali news del giorno, adeguando le proprie scelte giornalistiche e il formato degli articoli a una lettura esaustiva sia dal punto di vista editoriale che da quello “strumentale” - brevità, linearità, tendenza mobile.

Ciò che emerge dall’International New Media Association World Congress, infatti, sarebbe una sostanziale crescita del digitale e delle entrate via mobile, a discapito di un modello tanto discusso quanto quello dei paywall che di recente, dopo il trend positivo di qualche tempo fa, sembrerebbe soffrire un po’ insieme ai contenuti a pagamento - almeno secondo quanto emerso da alcuni sondaggi presentati dal CEO dell'associazione durante la conferenza (slide qui).

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“La percentuale degli editori che dà la priorità allo sviluppo dei paywall”, si legge su NiemanLab, sarebbe “crollata quasi della metà” dal 2013 a oggi: “può essere a causa del fatto che comunque sono già stati ‘costruiti’ - spiega Joseph Lichterman - o perché le entrate derivanti dai paywall per molte pubblicazioni si sono ormai stabilizzate, se non addirittura ridotte”.

In questo caso, assisteremmo al crollo di un’altra delle certezze di molti editori negli ultimi anni, insieme a quella della vendita di spazi pubblicitari per “impressione” che ha regolato gran parte del rapporto fra giornali e inserzionisti.

La notizia di questa settimana è che il Financial Times vorrebbe dare la priorità a metriche come il “tempo trascorso” sulla pagina dai lettori, da preferire al classico computo dei “click”: lavorando insieme a Chartbeat (tra le più note società di analytics per siti online) la storica testata starebbe evidentemente cercando di valorizzare la propria readership - più contenuta di altre ma fedele - e convincere gli investitori del fatto che click e pageview non sono il modo migliore per cogliere l’efficacia di un’inserzione - né quella di un articolo giornalistico, ovviamente.