Poche ore per cercare di spiegare le linee guida che deve adottare un giornalista che opera in zone di guerra per comunicare la guerra con obiettività.
Si è svolta ieri a Perugia, alle 17, al Centro Servizi G. Alessi, la conferenza “Giornalismo di guerra” moderata da Dario Moricone, con relatori i giornalisti Gianluca Ales (Skytg 24) e Oliviero Bergamini (RAI - Tg3), il generale, capo Ufficio Pubblica Informazione dello Stato maggiore della Difesa B. Massimo Fogari, nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo 2010.
«Esistono due principali tipi di giornalismo di guerra - spiega Oliviero Bergamini -: “embedded” o “non embedded”. La differenza sta nella scelta di seguire le truppe durante le operazioni militari o di recarsi da soli nella zona di conflitto». La forma di giornalismo “embedded”, nata nel 2003, ha un limite: permette al giornalista di raccontare la guerra dal punto di vista del soldato. Offre, però, alcuni vantaggi, fra cui la sicurezza. «Non si deve dimenticare – ha specificato Gianluca Ales – che la che guerra è cambiata, non si combatte più con eserciti convenzionali. Ora i giornalisti sono obiettivi per le truppe nemiche, soprattutto in certi conflitti che non hanno un teatro preciso, definito. Un giorno, in Afghanistan, non vedendo movimento intorno a me, ho chiesto a un marine: “Dove sono i talebani?” La sua risposta è stata “Everywhere” ».
Gianluca Ales e Oliviero Bergamini hanno spiegato cosa fare prima di partire: informarsi e studiare a fondo la zona di conflitto, organizzarsi una volta giunti sul posto (se non “embedded” è necessario trovare una persona che faccia da accompagnatore, una persona fidata che spesso si sceglie in base all’istinto), cercare di muoversi in tutta sicurezza, tornare spesso nello stesso luogo per capire bene cosa sta succedendo, per riuscire a raccontarlo.
Questa breve introduzione ha permesso di illustrare il rapporto fra Forze Armate e giornalisti. «Le Forze Armate hanno cambiato il modo di rapportarsi con i giornalisti: tutto si basa sul rispetto – specifica il generale Fogari -. I giornalisti sanno che i militari sono professionisti che svolgono il loro lavoro e operano in base a certi principi e nello stesso tempo i militari sanno che i giornalisti sono professionisti che operano in base ad altri principi. Noi militari sappiamo che il mondo dell’informazione evolve in modo rapido e che i giornalisti hanno determinate esigenze che non necessariamente corrispondono con quelle delle Forze Armate. Per questo motivo organizziamo corsi per addestrare i giornalisti che andranno ad operare in zona di guerra».
I problemi, infatti, sono molti: oltre al cambio della modalità di combattimento, che non permette di identificare un nemico e di collocarlo in un luogo fisico, il giornalista si è trasformato in un bersaglio. Non è più visto come una terza entità, un terzo attore, presente sul posto per raccontarlo. Oggi il giornalista per il nemico significa denaro, perché viene catturato per chiedere un riscatto. Il giornalista che opera in zone di guerra deve svolgere il suo lavoro, affrontando difficoltà di spostamento e la gestione del tempo, la difficoltà di recuperare notizie e la difficoltà nel verificare le fonti, stando attendo alla propria incolumità e cercando di non mettere in difficoltà e di non compromettere l’esito di operazioni militari. Il rapporto fra giornalista e Forze Armate si basa, infatti, sulla conoscenza che gli interessi dei due attori sono diversi.
«A mio parere non esiste una forma di controllo, una vera e propria censura. Esiste una visione parziale della guerra - specifica Gianluca Ales – dovuta al fatto che spesso si riesce a raccontare la guerra solo dal punto di vista dei soldati».
Silvia Pianelli