La guerra tra noi

«Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti»: dalle mire dei governi alle fabbriche di bombe, fino alla sperimentazione di nuove armi nelle servitù militari (spesso con problemi di inquinamento dell’aria e delle acque, come in Sardegna) non c’è guerra attualmente in corso in cui, parafrasando De André, noi occidentali non portiamo delle responsabilità. E’ questo il senso dell’intervento di Cecilia Strada, figlia di Gino ed ex presidente di Emergency, al Festival del Giornalismo di Perugia, dove ha presentato il suo libro “La guerra tra noi”.

Dalla Siria allo Yemen, passando per la Sierra Leone e altri stati africani, il mondo abbonda di conflitti più o meno alimentati dagli interessi delle grandi potenze. Quelli geopolitici, certo, ma anche quelli più propriamente commerciali. Ad esempio, Strada ha citato lo studio di una ong britannica che, esaminando i bossoli nei luoghi degli attentati, ha scoperto come le munizioni usate dall’Isis siano state prodotte prevalentemente negli Stati Uniti, in Russia e in Cina: praticamente dal gotha del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Per questo non sarebbe male un bando effettivo della vendita di armi a tutti quei governi che non rispettano i diritti umani. E, come singoli, non abituarci alla violenza e interessarci anche delle vite spezzate delle tante vittime non occidentali delle guerre e del terrorismo, che rimangono quasi sempre meri numeri, senza che qualcuno racconti le loro storie, con la sola eccezione del piccolo Aylan Al-Kurdi. I tanti interventi militari degli ultimi decenni – ha aggiunto la figlia di Gino Strada – non hanno risolto la soluzione e spesso hanno anche peggiorato le cose, come in Iraq o in Libia: servirebbe invece lavorare per costruire sistemi giudiziari, sostituendo la forza della legge alla legge della forza, che spesso significa semplicemente impunità.

Molti dei paesi poveri e non democratici sono anche il principale serbatoio che alimenta le partenze dei migranti. Su questo aspetto – ha proseguito Cecilia Strada – l’allarmismo non è generato solo dai politici di destra, ma anche dai giornalisti, che continuano a parlare di «emergenza» per un fenomeno che strutturale e antico come la storia dell’umanità. Senza contare che i profughi cercano nei limiti del possibile di rimanere vicino a casa loro, per controllare i loro beni e tornare il prima possibile. La maggior parte degli sfollati non viene in Italia, ma rimane nel proprio stato o in quelli confinanti, in particolare Libano, Giordania, Turchia, Uganda e Pakistan. Sulle migrazioni, secondo la ex presidente di Emergency, «c’è un gioco sulla paura»: una guerra tra gli ultimi e i penultimi. Invece dovremmo immedesimarci nelle sofferenze patite da queste persone, superando i falsi miti dell’«aiutiamoli a casa loro» o la più recente distinzione tra richiedenti asilo e «migranti economici»: che sono tali solo se neri, altrimenti noi occidentali quando ci spostiamo ci definiamo «cervelli in fuga».

Una parte del libro riguarda invece “Progetto Italia”: le strutture sanitarie che Emergency – come anche Save the children e Medici senza frontiere – ha aperto in Italia a partire dal 2006, offrendo gratuitamente medicina di base e alcune prestazioni specialistiche. Pensate per gli stranieri irregolari, che temono – a torto – di essere denunciati rivolgendosi agli ospedali pubblici, curano gratuitamente anche quelli che hanno i documenti in regola e perfino molti italiani poveri: senzatetto o pensionati al minimo, che rinunciano a curarsi nell’ultima settimana del mese. Nella maggior parte dei casi le persone, per esempio i portatori di malattie croniche, semplicemente non conoscono i loro diritti: Emergency li aiuta anche facendo orientamento amministrativo-burocratico così che possano riprendere a curarsi da soli, recuperando la loro libertà e dignità. In altri casi oltre al supporto medico è necessario fornire anche cibo: moltissimi braccianti stranieri che vivono nelle bidonville aspettano giorni prima di prendere le medicine “a stomaco pieno” perché per non comprare il cibo dai “caporali” mangiano solo mandarini o pomodori, quando vengono chiamati per raccoglierli. «Quando hai fame, freddo o paura – ha concluso Cecilia Strada – le distanze non esistono: siamo tutti uguali».

Alessandro Testa