La tv che muore e le redazioni che non servono più

Questa settimana in RoundUp: Mark Ames su Pando accusa Greenwald e la sua newco di aver "privatizzato" i file di Edward Snowden sfruttandoli dal punto di vista commerciale; la relazione col lettore e la membership, col caso del giornale online olandese che vive di crowdfunding; la tv è un media morente, e alcuni dati lo proverebbero; le testate continuano a vendere le loro redazioni storiche per trasferirsi in strutture più piccole e periferiche: beneficio o svantaggio?

di Vincenzo Marino

Greenwald e la “privatizzazione dei segreti”

Chi è il proprietario dei leak di Edward Snowden sulla sorveglianza globale? Ed è legittimo usarli come leva per promuovere altre attività o farne un uso non esclusivamente giornalistico, di disvelamento della verità? È ciò che si chiede questa settimana Mark Ames su Pando.com, sito che proprio in questi giorni ha rilevato il gruppo di lavoro dell’autore - la redazione di NSFWcorp - per allargare la propria offerta al giornalismo investigativo. È una questione che vale la pena di esser posta, «considerando che Pierre Omidyar ha appena investito un quarto di miliardo per assumere personalmente Greenwald e Poitras per la sua nuova nuova media venture for profit» spiega Ames, specie se i due fossero davvero gli unici ad avere accesso completo ai file: né Snowden, né Guardian, né Washington Post ne sono infatti in possesso - continua - sebbene Greenwald abbia più volte affermato che Snowden avrebbe consegnato il materiale ad altre persone per assicurarne la pubblicazione in ogni caso.

L’accusa di Ames, da tempo critico sulla newco di Greenwald e Omidyar, non è soltanto un giudizio sul progetto ma una questione di carattere etico-giornalistico: dinamiche di questo tipo - come il sacrificio del singolo per divulgare notizie legate a questioni democratiche - persuadono l’opinione pubblica portandola a parteggiare per chi decide di sfidare il potere senza interessi personali né per profitto (i Pentagon Paper, per esempio). In questo caso, invece, l’«heroic whistleblower story arc» sarebbe stato piegato agli interessi di Greenwald, che avrebbe sfruttato materiale d’interesse pubblico da rivendere poi ’in esclusiva’ (insieme al presunto monopolio sui documenti) «a un miliardario» delegando il completo controllo di informazioni di importanza mondiale anche dal punto di vista finanziario - come ad esempio la collusione fra le principali aziende tecnologiche e il governo americano per controllare i privati​​ - alla discrezione del fondatore di una di quelle stesse società. Al momento non si registrano repliche da parte degli interessati (qui alcune reazioni su Twitter), e sebbene il punto di vista non sia privo di aspetti interessanti è ancora necessario approfondire più di una questione ancora poco chiara sull’effettiva proprietà dei leak e il rapporto privilegiato di Greenwald con la fonte (UPDATE: Greenwald ha annunciato l'imminente uscita di nuovi aggiornamenti e risposto alle accuse di Pando in questo post).

La relazione col lettore e la membership

Immagine via NJL

Servire il lettore appare una tendenza vincente, o quanto meno da perseguire sia in termini ‘ideali’ che economici. Mathew Ingram questa settimana analizza l’importanza della reciprocità fra testata e utente su Gigaom, partendo dal progetto - analizzato da Ken Doctor - di un modello di «paywall 2.0» per il New York Times. La base di questo tipo di abbonamento sarebbe un sistema di micro-sottoscrizioni attorno a specifiche aree, inducendo il lettore a abbonarsi a contenuti ‘verticali’ (cucina, real estate, editoriali). Ingram ritiene sia più funzionale puntare al tema della membership piuttosto che all’offerta di contenuti «premium», in tutto uguali a quelli già esistenti: i social media - ritiene l’autore - avrebbero rotto il sistema di consumo delle news come semplice prodotto, enfatizzando la “radice umana”, la relazione fra user e testate (e suoi autori). «Not product, but people»  suggerisce, sfidando il NYT ad abbandonare l’aria da «zio sapientone» (sintetizza Doctor) restio al compromesso coi propri utenti, e ad abbracciare un modello che implica ‘prossimità’ e affiliazione: monetizzare dall’esperienza del lettore (e non dal prodotto) scommettendo su servizi diversi (offerte speciali, rassegne di eventi) ai quali il New York Times, dato peso del brand e della base di lettori, può facilmente puntare.

Da questo punto di vista non sembra un caso la scelta di ProPublica, che questa settimana ha lanciato una campagna di crowdfunding invitando i propri lettori a «entrare a far parte della community» e diventare «ProPublican». Un trend ormai consolidato: «l’obiettivo principale di questo approccio è stabilire una duratura e significativa relazione coi nostri lettori. Pensarli come membri piuttosto che come abbonati» spiega Ernst-Jan Pfauth su Medium. Pfauth è infatti l’editore di una testata online olandese che sulla partecipazione dei lettori è nata e cresciuta, diventando un caso editoriale . Nel post, nel quale viene raccontata la storia della nascita del suo De Correspondent, grande enfasi è posta sul modello di business incentrato sul rapporto col lettore, da considerare utente ultimo del lavoro editoriale e non come prodotto da vendere agli inserzionisti («l’obiettivo finale è fare giornalismo, non riempire le tasche degli azionisti»). Uno scambio con l’utenza che non si ferma alla lettura, ma che fa del lettore l’unico vero «ambasciatore» del lavoro della testata, l’unico strumento di «sponsorizzazione» del lavoro del sito: una strategia che per ora - spiega - sembra funzionare (hanno raccolto ben 1.7 milioni di dollari) e che col tempo li sta aiutando a costruire un’ampia base di lettori ‘effettivi’, di membri, e non di soli ‘visitatori’.

La tv che muore e la ricerca dell’attenzione mobile

Il “giornale” non è però l’unico media a patire gli effetti di questa generale parabola discendente: in un post dal titolo «La TV sta morendo, e queste statistiche lo dimostrano» Jim Edwards su Business Insider analizza una serie di cifre che raccontano l’ineludibile crisi del mezzo. In sintesi: negli USA solo nel terzo trimestre del 2013 la pay tv avrebbe perso 113 mila abbonati, per un totale di 5 milioni di sottoscrittori in meno dal 2010 a oggi(tra via cavo e broadband). Sempre meno tv accese, e sempre meno le case che ospiterebbero un apparecchio televisivo, contro un’«audience» (così definita) che su Facebook e Google supera l’intero volume di contatti televisivi. Un numero che ovviamente non spiega il flusso di utenti in uscita dalla tv verso i contenuti multimediali, ma che mostra una chiara tendenza: gli strumenti mobile starebbero infatti sostituendo la televisione, attirando l’attenzione dei loro possessori proprio nel periodo della giornata generalmente deputato allo zapping: il prime time. Il tablet - e il mobile in genere - dominano le connessioni internet nella prima e nella seconda serata, e stando a una ricerca Cisco il consumo globale di video da apparecchi mobile sarebbe destinato ad aumentare di anno in anno in maniera pressoché esponenziale.

Non fanno eccezione gli investimenti degli inserzionisti, che inseguono l’attenzione del lettore cominciando a preferire i media digitali alla vecchia tv, da sempre ‘leone’ nella raccolta pubblicitaria. Ed è soltanto l’inizio: ancora oggi, secondo una ricerca di Macquarie Capital, esisterebbe una profonda discrepanza fra le ore di tempo trascorse sui mobile device e i flussi degli investimenti pubblicitari, dinamica che dovrebbe spostare nei prossimi anni buona parte di questi dalla tv e dai giornali (riducendo all’osso la loro raccolta) al digitale. Una dinamica che in tanti stanno cercando di intercettare (Amazon su tutti) e che ha portato Yahoo ad assicurarsi la giornalista Katie Couric come Global Anchor. Personaggio televisivo noto al grande pubblico, la Kouric dovrebbe diventare «il volto delle news» di Yahoo, con l’obiettivo di attirare più utenti possibili sulle pagine del gruppo e di offrire contenuti adattabili «su ogni tipo di schermo» - come spiegano su Mashable. La versione mobile del sito sportivo di ESPN, intanto, in settimana ha superato nuovamente quella desktop.

La «diaspora digitale» delle redazioni

È vero che l'ascesa del mobile permette al giornalismo di vivere ‘lontano’ - e senza problemi - dal centro delle news? Se lo chiede Nikki Usher su NiemanLab, partendo dal caso della redazione del Miami Herald, giornale che si è trasferito a una ventina di chilometri dal centro e i cui componenti si stanno chiedendo se la nuova sistemazione periferica sia in realtà un beneficio o uno svantaggio. Il Miami non è il solo giornale a subire questa sorta di decentramento: si tratta di una tendenza che continua ad affermarsi in questi mesi, costringendo le testate a vendere l’immobile (non ultimo il Washington Post, per 159 milioni) e ad abbandonare le loro sedi storiche per spostarsi verso edifici più economici e lontani «da dove tutto succede» (in Italia esemplare il caso del Corriere della Sera e la sede di Via Solferino). Non bastasse la crisi economica, che costringe a ottimizzare su tutte le voci di spesa, sarebbe lo stesso paradigma produttivo digitale a imporre spazi lavorativi ottimizzati per prodotti diversi, spazi più piccoli per assecondare la costruzione dei nuovi prodotti e ottimizzarne i costi di produzione.

In questo senso la migrazione delle redazioni diventa interessante dal punto di vista simbolico e industriale: in un’epoca nella quale una struttura deputata al lavoro giornalistico sembra essere quasi del tutto superflua, potendo costruire prodotti di carattere editoriale in qualsiasi posto, i giornalisti del Miami Herald - nelle testimonianze raccolte da Nikki Usher, che segue da settimane per NJL questo tema - continuano in gran parte a preferire la prossimità fisica con la notizia e i colleghi, a non accontentarsi di un tavolo e di un access point da Stabucks: la redazione funge ancora da collettore di idee e stimoli, e ha bisogno di vivere al centro della scena - spiegano - per riuscire a raccontare davvero le storie di una città intera e rapportarsi coi suoi cittadini (tanto più, come in questo caso, se si tratta di una testata locale). Vale la pena considerare attentamente cosa si perde per strada in questa «diaspora digitale», conclude l’autrice.