La verità non basta #giornalismo

Questa settimana in RoundUp: che si parli di giornalismo classico o pubblicità stile advertorial, il lettore è sempre al centro del processo. È lui a scegliere cosa vale la pena leggere e cosa funziona, in un mercato «demand-based» nel quale «alle persone oggi non importa molto da dove proviene l’articolo, finché gli dice qualcosa». Al centro di questo processo, i social network: Facebook continua a essere fondamentale per utenti e editori, e sta cercando un modo per rendersi ancora più indispensabile quando si tratta di news online.

di Vincenzo Marino

La verità non basta

Questa estate le bacheche dei social network sono state invase dalla foto di un ragazzo: il suo nome era Jeremy Meeks, era di bell’aspetto, era stato arrestato per detenzione illegale di armi e aveva cominciato a circolare la notizia (ripresa da testate come BuzzFeed, Gawker, Washington Post, NewYorkMag) secondo la quale gli sarebbe stato offerto un contratto da 30 mila dollari come modello. Notizia che, benché virale, non era vera: l’episodio è richiamato questa settimana da Luke O’Neil su Playboy Magazine, in un articolo su notizie-bufala, la loro diffusione e standard etici per il giornalismo digitale. Processi del genere sarebbero conseguenze incalcolate di una politica editoriale precisa. Le testate online «si concentrano sul numero di visite ottenute perché sono un termine facilmente quantificabile»  gli spiega Jonah Berger, autore del libro “Contagious: Why Things Catch On”, portando a prediligere sensazionalismo e velocità alla cura di fonti e dettagli. Ai giornalisti sarebbe così richiesto il compito di ottimizzare la diffusione delle notizie e spingere i lettori a «condividere titoli gustosi senza leggere l’articolo».

Ma come si spiegano dinamiche simili, da parte di chi legge? Secondo il professore della Boston University Carey Morewedge, interrogato dall’autore, le ragioni affonderebbero nella psicologia: per i lettori è facile condividere e prendersi le ‘lodi’ dei propri amici e follower per aver pubblicato una notizia interessante, più difficile invece ricevere critiche (tanto più se ‘a distanza’: «If you tell a lie in person, you’re more likely to receive the blame») per la condivisone di bufale - per le quali si può agilmente attribuire la responsabilità alla testata che l’ha diffusa e si era reputata autorevole. Inoltre diventa sempre più complicato accorgersi della non-veridicità di una bufala: notizie del genere, nella loro viralità, si diffondono molto più velocemente delle loro smentite, spesso soffocate da un processo di condivisione ormai irreversibile senza l’effettiva possibilità di essere domato o corretto. «Truth is not a major driver of why stories are shared»  continua Berger, e la colpa non può essere ascrivibile a chi legge e condivide, quanto - continua il pezzo di Playboy - più in generale a una classe giornalistica che rischia di abituarsi a lavorare senza troppi standard etici. Il vero pericolo - conclude O’Neil - è trovarsi in un mondo in cui satira, parodie e news sono indistinguibili (da segnalare a riguardo la distinzione fra “autorità” e “autenticità” citata questa settimana dal fondatore di Storyful Mark Little).

Come Facebook sta trasformando il giornalismo

In questo senso, il modo in cui le notizie vengono consumate e condivise è ovviamente cambiato (qui un post su come il giornalismo digitale veniva immaginato negli anni ‘80) e sono i social network i principali motori di questo cambiamento. Facebook diventa sempre più importante per editori e lettori, se si considera (dati pubblicati in settimana dal Pew Research Center in un articolo di Monica Anderson e Andrea Caumont) che il 30% degli americani utilizza il social network per trovare le proprie news (contro il 10% di YouTube e l’8% di Twitter), che un utente su due le condivide e poi le discute online, e che negli ultimi mesi si è assistito al sorpasso della società di Mark Zuckerberg su Google come principale fonte di visualizzazioni. Nel processo d’avvicinamento all’informazione - in sostanza - Facebook diventa sempre più significativo, sebbene le differenze ‘comportamentali’ fra chi arriva alle notizie da una fonte come Facebook, rispetto ad altre, siano piuttosto sostanziali: come si evince dal grafico che segue (sempre fonte Pew) chi accede alle notizie direttamente dalle homepage del sito ha un tempo di permanenza medio di 4 minuti e 36 secondi (qui un’analisi di FastCo su come si possa adattare i contenuti al responsive design), quasi 4 volte in più rispetto a chi arriva da motori di ricerca e Facebook, ed è fortemente più propenso a leggere altri contenuti.

È anche per questo che il rapporto tra Facebook e i publisher si sta facendo sempre più stretto: questa settimana John McDermott su Digiday parla dell’attuale - e futura - strategia mediatica del social network, un piano che dovrebbe portare la società di Palo Alto a essere strumento sempre più importante per tutti i news outlet, costringendoli a una collaborazione inevitabile. Forte di una squadra di giornalisti ed esperti, e partnership a vario titolo con testate come Time Magazine, l’obiettivo di Facebook è rendersi sempre più indispensabile per lettori e autori sfidando la concorrenza di Twitter - dalla platea più piccola, ma sempre piuttosto forte dal punto di vista informativo e della presenza mediatica - e dell’emergente Pinterest (che comincia a essere una fonte di traffico significativa per alcuni siti e sta lavorando molto dal punto di vista editoriale). Non a caso l’ultima novità del suo algoritmo prevede una costruzione più ‘cronologica’ dei post nelle bacheche degli utenti per premiare le breaking news, «così da conoscere immediatamente cosa i tuoi amici, e le tue pagine preferite, stanno dicendo a proposito delle notizie del giorno». Una conseguenza, secondo Stuart Dredge del Guardian, derivante da come i recenti fatti di Ferguson sono stati “vissuti’ sui social network - con Twitter protagonista attraverso racconto, organizzazione e lancio di aggiornamenti, contro una presenza Facebook quasi irrilevante.

Pubblicità o news, decide il lettore

immagine via @fastcolabs

Che si tratti di partecipazione attiva o semplice lettura di aggiornamenti da una dashbord, appare sempre più chiaro come per gli utenti la distinzione settaria fra testate riconosciute (l’autorevolezza, dicevamo) e altre fonti di notizie (propriamente giornalistiche o meno) sia sempre più sfumata. Non stupisce, in un contesto in grado di garantire a chiunque la possibilità di ‘essere media’, che company senza alcuna velleità giornalistica - ma con l’intenzione di pubblicizzare prodotti e servizi - vogliano fare per conto proprio, utilizzare gli strumenti del giornalismo per applicarli alla pubblicità. «Per ogni giornalista che lavora in America, ad oggi, si contano 4,6 PR rispetto ai 3,2 di un decennio fa»  : è quanto si legge in un lungo articolo di Andrew Edgecliffe-Jonhson per il Financial Times sull’invasione delle «corporate news» (gli advertorial, in altre parole). Mentre comunità medio-grandi vedono sparire i propri giornali di riferimento, falciati da una crisi insostenibile, il settore del native advertising continua a godere di ottima salute, pronto a rappresentare gli interessi del committente e a scolorire la distinzione - che l’autore reputa storicamente più netta - fra il contenuto giornalistico e quello pubblicitario. Il tema, a fasi alterne, torna d’attualità in un dibattito mediatico mondiale continuamente teso a cercare una via fra sostenibilità e riflessioni professionali. Ma se per molti nelle redazioni il native advertising è un problema di carattere etico, allora perché continua a trovare così tanto mercato?

La risposta, nel pezzo, cerca di darla un ex studente della Columbia J-School ed ex giornalista di Forbes, che attualmente lavora per la comunicazione della General Electric, Tomas Kellner. «Alle persone oggi non importa molto da dove proviene l’articolo, finché gli dice qualcosa»  : in un contesto che garantisce accesso libero, gratuità di produzione e - dunque - perdita di autorità delle vecchie ‘cattedrali’, il lettore è il giudice unico di ciò che vale la pena di considerare rilevante, a prescindere dalla fonte, ed è a lui che bisogna pensare - che si lavori da giornalista o da PR. Mathew Ingram la pone in termini economici: «It’s a demand-based market now», è il consumatore a plasmare l’offerta, non il produttore, e se un contenuto è valido, utile, «o soddisfa un bisogno di qualche tipo, allora funzionerà». Vale per tutti i contenuti, pubblicitari e editoriali, e in altri termini - per dirla col professore di giornalismo Jeff Jarvis - se a funzionare è il prodotto di un’azienda che cerca pubblicità, rispetto a un prodotto giornalistico, non è certo colpa del lettore ma di chi non è riuscito a incontrato il suo interesse.