Lo storytelling, ovvero la tecnica con cui, letteralmente, si racconta una storia, è uno dei concetti più discussi dal mondo politico e della comunicazione: troppo spesso confuso con “social content”, “framing” e “propaganda”, di cui è ormai divenuto un sinonimo, troppo spesso ritenuto un discutibile mezzo per influenzare elettori e opinione pubblica, troppo spesso associato a chi non parla di fatti, ma di ‘fuffa’.
Quali sono le motivazioni che, soprattutto in Italia, hanno portato a questa cattiva reputazione? Qual è il ruolo che lo storytelling può assumere all’interno del giornalismo? Quali sono state le colpe dei media italiani?
Questi punti hanno trovato spazio nell’incontro tenutosi a Palazzo Sorbello, in cui Dino Amenduni, Mafe De Baggis, Andrea Marcolongo e Cristian Vaccari hanno provato a dare una propria interpretazione.
Partendo dall’antica Grecia, i poemi omerici rappresentano “la più lunga ed efficiente forma di storytelling”: raccontare una storia, infatti, implica la creazione di un mondo quasi immaginario, ma non svincolato dalla realtà contingente. Un chiaro esempio, riportato ripetutamente dagli esperti, è rappresentato dalla compagna elettorale di Silvio Berlusconi - che ha avuto il merito di introdurre nuove forme di propaganda negli anni ’90 - il quale promise un milione di posti di lavoro: l’effetto di questa affermazione è stata di fatto influenzata dalla sua posizione di imprenditore di successo.
Da quel momento in avanti, questo strumento non è stato mai visto di buon occhio da gran parte della popolazione, che ha quindi accantonato per molti anni la possibilità di utilizzare a loro volta questa tecnica, di poterne trarre vantaggi conoscitivi e divulgare idee alternative.
Radicare un’opinione pubblica indipendente, guidare la conoscenza di un fatto e la sua interpretazione, tramite la creazione di “associazioni narrative”, colmare la distanza tra la realtà e il pubblico: lo storytelling, politico e non, presenta grandi potenzialità che, per via di pregiudizi, non trovano la via del completo dispiegamento.
Parallelamente, il giornalismo italiano continua ad avere numerose lacune. Obbligato, da un lato, da un’auto imposizione di rigorosa immediatezza e, dall’altro, dalle amicizie tra le testate giornalistiche e le forze politiche più influenti, i media del nostro Paese hanno quasi rinunciato a “ricoprire il loro ruolo sociale”, sottomettendosi spesso all’utilizzo che i partiti fanno dello storytelling.
“Where is the story”, dov’è la storia? È sufficiente, per informare in modo costruttivo, copiare un comunicato direttamente dal politico interessato?
Quello che manca da tempo è la critica costruttiva, sostituita purtroppo da indifferenza tra le opinioni e superficialità.
L’augurio è quello che ogni storia in sé ritrovi la sua centralità e che i giornalisti, invece di cercare la rapidità, ritrovino la volontà e la pazienza di raccontare e approfondire.
Lorenzo Tobia