Paywall: chi mi ama, mi paga

La chiusura di The Daily, il giornale come «bene di lusso», il dibattito sui paywall e il coinvolgimento dei lettori.

Questa settimana in RoundUp: la chiusura definitiva di The Daily, il giornale per tablet di Rupert Murdoch; la provocazione del New Yorker: ai quotidiani non resta che sopravvivere come «beni di lusso»; da La Repubblica al Washington Post: tutti vogliono il - e parlano del - paywall; il coinvolgimento del lettore e il sistema di moderazione dei commenti dell'Huffington Post.

di Vincenzo Marino

The Daily chiude

La notizia forte della settimana nello scenario dei media è stata ovviamente l'annuncio della chiusura di The Daily, la testata solo per iPad lanciata nel febbraio del 2011 dal magnate delle comunicazioni Rupert Murdoch e indicata all'epoca come uno degli esperimenti più interessanti per il futuro dell'editoria. Il giornale, che era arrivato a perdere 30 milioni di dollari all'anno, è stato infatti escluso dalla divisione delle società dell'editore australiano, che ha separato le sue proprietà in due gruppi - News Corporation e Fox Group - non prevedendo l'ingresso della testata per tablet in nessuna delle due. Redazione in chiusura e progetto fallito, dopo poco meno di due anni e un bilancio giornalistico – come ammesso da molti in questi giorni – piuttosto magro.

La morte dell'esperimento, oltre a provocare parecchia ironia in rete e l'indifferenza di chi - evidentemente numerosi - non ha mai badato all'esistenza della testata, è stata anche lo spunto per un dibattito ben più esteso sui modelli di prodotto sui quali investire, sul valore economico del giornalismo in rete commisurato all'invadenza dei contenuti gratuiti e alla sfida delle nuove tecnologie, sui migliori supporti da utilizzare e quelli da evitare. In fin dei conti, una - e più d'una - lezione da imparare per tutti, a scapito del ricco proprietario australiano. Il dibattito, ampio e animato dai più diversi punti di vista, è consultabile sul nostro 'notebook' su Spundge, nel quale sono state raccolte le analisi più interessanti e significative prodotte a proposto di questo incredibile e paradigmatico flop.

E sono diverse le tesi in proposito. C'è infatti chi crede che il fallimento del progetto rappresenti una pietra tombale sugli investimenti in questo tipo di supporto multimediale, considerato troppo chiuso, poco incline alla condivisione, come stare su Internet senza stare su Internet, chiudendo per sempre le porte a un giornalismo tablet native - «nessuno pagherà per ciò che non si sa di perdere», sintetizza David Carr. Chi invece punta il dito nei confronti dei contenuti, mai troppo interessanti o comunque tanto desiderabili da valere l'acquisto del 'giornale'. E chi invece ancora crede alla percorribilità della strada che porta al tablet first - o al tablet only - e che comunque, nello spostamento da carta a digitale, l'episodio finirà per contare ben poco. Molte delle ragioni del flop, probabilmente le principali, sono state riassunte da Joshua Benton su NiemanLab: l'autore ha infatti chiesto ai propri lettori su Twitter di analizzare insieme il caso, arrivando ad indicare tra le cause - appunto - piattaforma, contenuto, struttura redazionale troppo e ingombrante e business model fallimentare.

Il giornale come bene di lusso

La questione di fondo resta comunque, come sempre più spesso accade, il valore della notizia - e del supporto sul quale la si legge - per i produttori e soprattutto per i consumatori. La chiusura di The Daily è stata infatti oggetto anche di una considerazione più ampia sviluppata in settimana da John Cassidy sul sito del New Yorker. Lo scenario analizzato è quello ben noto: tagli nelle redazioni, contenuti sempre più ridotti per far fronte alla crisi delle entrate - pubblicitarie e di vendita - per un mercato in netta depressione, che fa del giornale un bene non più necessario, non più appetibile per il mercato di massa. «Ma questo non vuol dire - precisa Cassidy - che non esista un futuro per testate come il New York Times e il Wall Street Journal, o il Financial Times o altre pubblicazioni che sono comunque in grado di attirare l'attenzione di coloro che hanno maggiori disponibilità economiche». Gli stessi consumatori maggiormente disposti a pagare.

Il futuro, dunque, sarà sì dominato da pubblicazioni più snelle, da un numero minore di testate, da diversi tipi di supporto (e la carta, secondo questa analisi, avrà ancora qualche anno e una sua importanza economica e strategica, almeno per alcuni gruppi), ma soprattutto dalla ridefinizione del giornale come «bene di lusso». Considerata infatti l'inarrestabile discesa delle capacità economiche medie delle famiglie, e la contemporanea crescita dei prezzi in edicola dei quotidiani mandati in stampa, secondo l'autore potrà apparire plausibile una circoscrizione più precisa del target di lettori al quale vendere il proprio prodotto. E in questo caso, appunto, coloro che possono permettersi gli odierni 2-2,50 dollari al giorno o i circa 500 e più dollari di abbonamento annuo. Una scelta suggerita anche - ovviamente - dall'ancora inconcludente ricerca di un modello di business alternativo a quello pubblicitario su carta.

I lettori digitali, infatti, varrebbero economicamente meno di quelli 'classici' in termini di rapporto fra entrate e costi, e sebbene gli abbonamenti internet sembrino cominciare a dare numeri per lo meno soddisfacenti, non si può ancora pretendere di tagliare i costi della stampa e spostare l'intera produzione sul web, dove comunque la pubblicità non è minimamente paragonabile alle quote che ancora frutta - per testate del genere - la carta. Da qui, quindi, il senso di mantenere il 'presidio' nelle edicole, almeno «nei loro maggiori mercati», per giornali come Times e WSJ. In attesa di numeri più incoraggianti dal versante del digital advertising, e rifiatando grazie alle nicchie di consumatori fedeli e abbienti che potranno ancora permettersi le notizie - perché comunque l'idea non è priva di questioni tutte da discutere, sulla necessità di un'opinione pubblica informata in modo più ampio possibile, l'inaccessibilità da parte di larga parte della popolazione alle notizie, il tema della 'democrazia informata' per un gruppo sempre più ristretto di persone disposte a pagare per poter scavalcare, per esempio, un 'muro'.

Il dibattito sui paywall

Questi ultimi giorni sono anche, se non soprattutto, quelli del dibattito sul paywall, nato la settimana scorsa da numerosi articoli in merito alla possibile adozione del 'muro' da parte del Washington Post, e giunto anche in Italia con le parole dell'editore del gruppo Espresso Carlo De Benedetti a Otto e Mezzo su La7. De Benedetti ha infatti annunciato l'intenzione di voler adottare il sistema del paywall per Repubblica.it nel 2013, «sul modello di quello del New York Times». Ed è probabile che la mossa possa avere conseguenze sull'intero panorama informativo, innescando un meccanismo che potrebbe portare in breve tempo le altre maggiori testate italiane - La Stampa, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, a seguire la strategia de La Repubblica. Oppure più probabilmente non comportando alcun cambiamento 'epocale' per abitudini dei lettori e proposta informativa gratuita online: secondo Luca Conti, per esempio, la posizione 'dominante' di Repubblica.it in quanto a accessi - e persino profittevoli, secondo l'editore intervistato da Lilli Gruber - dovrebbe portare all'adozione di un muro più elastico, 'perforabile', nell'intento di non disperdere troppi contatti unici (come successo in pratica al Times di Londra, che è arrivato a perdere il 90% degli accessi). E trascinando dunque i siti concorrenti nell'adozione di meccanismi simili e non troppo restrittivi.

Ma lo scambio di opinioni, a livello internazionale, si è intensificato molto negli ultimi giorni fino ad arrivare ai livelli di ciò che Ingram ha definito una sorta di «guerra di religione», nella quale spesso si contrappongono tesi esasperate che sembrano non contemplare spazi per il confronto e opzioni più 'moderate', a metà strada fra il muro invalicabile e il 'tutto gratis' - e Ingram fa l'esempio di modelli come quelli di Talking Points Memo e PandoDaily, più simili al già citato velvet-rope approach che dovrebbe incoraggiare i lettori più fedeli o interessati a pagare per leggere. Il mercato e lo scenario sono totalmente cambiati, è il senso della critica. E vale la pena discutere e intendersi, giacché «penso che nessuno abbia una ricetta magica che porti indietro il settore ai fasti di un tempo, per il semplice motivo che è impossibile». Gran parte dell'intero dibattito è consultabile su un altro notebook preparato in questi giorni, nel quale sono stati raccolti gli articoli più rilevanti sul tema.

Intanto, mentre il sistema comincia a regalare buone notizie editori e redazioni, è proprio di queste ore la notizia dell'effettiva decisione da parte della dirigenza del Washington Post di adottare il paywall, e dell'intenzione di Daily Beast - la versione online del settimanale Newsweek, che chiuderà i battenti nei prossimi giorni - di trovare un modo per garantire ai contenuti online un valore monetario e far fruttare economicamente i contatti del sito attraverso un sistema definito «metered access», che permette la lettura gratuita di un numero limitato di articoli (e c'è chi si chiede se per entrambe le testate appena accodatesi al «paywall bandwagon» non sia troppo tardi). Stessa sorte anche per l'edizione digitale di News & Observer, che diventerà a pagamento dal 19 dicembre prossimo, e per le molte altre testate che, nel corso del 2013, abbracceranno il sistema. Un'alternativa doverosa, per altri solo sacchi di sabbia contro la marea. Basterà comunque ricordarsi – ammonisce John L. Robinson sul suo blog - che ciò che viene prodotto e offerto 'dietro il muro' dovrà essere meglio di prima, perché valga davvero la spesa. Più preciso, nei commenti al post, Steve Buttry: «Il ragionamento di molti di quelli che lavorano col paywall è che meritano di esser pagati già solo per ciò che fanno. Ma il mercato premia il valore. E se fai pagare in un mercato dove prevalgono i contenuti free, allora ti conviene produrre contenuti eccezionali».

Coinvolgere il lettore senza farlo «lavorare troppo»

Ma come fare di una testata online un successo? Una risposta cerca di darla Randy Covington su EditorsWeblog, menzionando il caso dell'Huffington Post. Il sito – gratuito per definizione - è indubbiamente riuscito negli anni a sopravvivere prima, trarre profitto poi e persino imporsi sui più blasonati marchi dell'informazione mondiale in rete, sebbene - nota l'autore - senza cambiare troppo drasticamente la gerarchia classica delle notizie, né il loro racconto. La realtà è che l'Huff lavorerebbe addirittura ben «più del tipico sito di giornale online»: i contenuti prodotti dalla redazione infatti sarebbero meglio studiati per enfatizzare quasi sempre l'aspetto 'social' della notizia, puntando sulla condivisione e i commenti dei lettori, oltre che sul contenuto stesso della news. «È facile condividere articoli, interagire o trovare contenuti correlati», spiega. E forte è anche, se non soprattutto, quello che definisce user engagement: il lettore è invogliato a registrarsi e commentare anche grazie a un sistema di moderazione automatica - basato su algoritmi linguistici, su Poynter in ottobre Jeff Sonderman spiegava come funziona - e al lavoro di trenta moderatori full time.

Un lavoro che garantisce un'aggregazione di qualità e un'«esperienza positiva» per i lettori. Una delle idee per 'vendere' meglio la propria pagina e i propri contenuti è proprio quella di dare al lettore la consultazione più coinvolgete possibile. «The best content is going to be relevant, engaging and shareable», sintetizza Kate Ortega, Deputy Graphics Editor del Wall Street Journal, durante una conferenza organizzata da News:Rewired giovedì scorso. E l'esempio, per il Journal, è quello di «Exploring Ground Zero, ten years later», un grafico interattivo dove sono state pubblicate foto del luogo a 360 gradi: un successo che ha fatto capire loro che se il lettore è motivato, coinvolto e interessato, allora passerà più tempo sul sito e lo condividerà sui social network più facilmente.

Ma non basta tenere l'utente sulla propria pagina: è necessario che questo provi interesse per il contenuto, lo legga, dato che secondo una statistica ricavata da uno studio del Poynter Institute ci vogliono in media 90 secondi per leggere un intero articolo e la media di permanenza su una pagina online è di soli 78,3 secondi. Allora - suggerisce lo User Experience Consultant Marc Downer - diventa necessario 'divertire' il lettore, coinvolgendolo senza farlo però 'lavorare': «Non vogliamo che l'utente lavori troppo, ma che i contenuti siano più coinvolgenti». Ovviamente il processo varierà da utenza a utenza, e per esempio, per lettori di testate locali, sarà bene tenere in considerazione i «nove tipi di articoli» che funzionano in termini di 'engagement' elaborati da un esperimento di Eric Athas e Teresa Gorman per NiemanLab. Si tratterà di un modo per creare un legame fra il lettore e la testata, e fra lettori stessi, e far sì che questi semplicemente preferiscano il proprio sito agli altri. Sebbene, rammenta giustamente ancora Covington su EditorsWeblog, «il successo non proviene dalla presenza sui new media, come spesso si sente dire, quanto dalla qualità che attraverso queste piattaforme viene distribuita». Che si tratti di coinvolgimento dei lettori, adozioni di paywall o aperture verso giornalismi tablet oriented.