Perché non sconfiggiamo il califfato nero

Lo “stato islamico” di Al-Baghdadi è veramente un nostro nemico oppure in fondo la sua esistenza fa comodo – o almeno così è stato in passato – a noi occidentali e ad alcuni nostri alleati storici? Nel giorno del nuovo, terribile, attentato a Stoccolma Barbara Serra (Al Jazeera English) ha intervistato oggi a Perugia Corrado Formigli (La 7), che su questo argomento ha pubblicato un libro nel 2016.
L’Occidente – sostiene Formigli – è entrato in una fase in cui sostiene di nuovo i dittatori (come l’egiziano Al-Sisi) considerandoli una sorta di “male minore”, l’unico argine al fondamentalismo islamico. E questo nonostante Assad costituisca il principale ostacolo alla pace e sia comunque in qualche modo responsabile della recente strage di bambini, sia che abbia volutamente attaccato con armi chimiche sia che la sua aviazione abbia colpito (intenzionalmente o meno) un deposito dei guerriglieri.
La colpa dell’espansione dell’ISIS – secondo il conduttore di Piazzapulita – non è solo dell’invasione dell’Iraq da parte di George W. Bush nel 2003, ma anche del ritiro affrettato voluto da Obama, che ha abbandonato intere caserme piene di armi. Al-Baghdadi ne ha approfittato e, rispetto ad Al Queda, ha avuto «un’intuizione storica» per far compiere un salto di qualità al jihadismo: ha dato ai terroristi di tutto il mondo un luogo in cui costruire uno stato in cui applicare alla lettera la sharia. Uno stato senza alcuna libertà per chi ci vive, ma dotato di esercito, confini, polizia, magistrati e dove si pagano le tasse.
Nella regione si sta giocando uno scontro tra varie potenze. La presenza di un attore sunnita come l’ISIS è stata a lungo ben vista da Turchia e Arabia saudita per compensare in funzione anti-iraniana il nuovo governo iracheno guidato dagli sciiti, maggioranza emarginata ai tempi di Saddam Hussein. In particolare la Turchia di Erdogan aveva per nemici storici sia Assad – al quale si è però recentemente riavvicinata – che i curdi, che ha lasciato massacrare a Kobane senza muovere un dito. L’inviato de La7 è stato il primo giornalista occidentale ad entrare nella città-martire a due passi dalla frontiera della NATO, una frontiera scarsamente protetta e da cui – sostengono i peshmerga – entravano invece armi ed esplosivi attraverso l’highway 47, ribattezzata “l’autostrada della Jihad”.
L’arretramento del “califfato” – ha concluso Formigli – richiederà ancora molto tempo, ma creerà altri problemi: la perdita del territorio lo renderà infatti sempre più simile ad Al Quaeda, con attacchi terroristici ovunque per scatenare una guerra totale. Non a caso la serie è iniziata con Charlie Hebdo appena subito dopo la sconfitta di Kobane. Noi occidentali abbiamo cominciato a combattere davvero l’ISIS solo quando è apparso chiaro che il mastino inventato dai sauditi in funzione anti-sciita si era liberato del guinzaglio ed era ormai diventato ingestibile. Di sicuro avremmo però potuto facilmente bloccare fin da subito almeno la propaganda dello “stato islamico”, trasmessa via Internet attraverso connessioni satellitari tracciabili e che, una volta individuate, è possibile disattivare. Forse non è stato fatto per poterli spiare meglio. Forse, più semplicemente, per rientrare degli altissimi costi di gestione dei satelliti.

Di Alessandro Testa