Redazioni vuote, giornalismo pieno?

Questa settimana in RoundUp: il passaggio al digitale dal punto di vista delle redazioni, che continuano a svuotarsi - anche se per alcuni non è necessariamente un male; da qualche parte nel nuovo mondo dell'editoria i soldi continuano a scorrere: è il caso di Vox Media, che ha appena raggiunto una valutazione di 400 milioni (150 in più del Washington Post); un utente su due non si accorgerebbe delle inserzioni pubblicitarie online, che intanto continuano a correre verso Facebook e Google.

di Vincenzo Marino

Le redazioni che si restringono

Non c’è settore industriale, culturale ed economico che non sia stato influenzato per sempre dall’irruzione del digitale. E il giornalismo, ovviamente, non fa eccezione: domenica scorsa uno dei più noti media critic americani, David Carr, ha scritto sul New York Times un articolo dal titolo «When the Forces of Media Disruption Hit Home», per affrontare il tema di questa transizione guardandolo dall’interno delle newsroom. Carr parla di quanto sia difficile veder rimpicciolirsi le redazioni, perdere colleghi bravi e stimati - in ottobre NYT ha deciso di tagliare 100 posti su 1330 - malgrado il processo risulti a tutti gli effetti inevitabile. E sebbene l’autore sia ben cosciente del fatto che le cose, in uno scenario dominato da un mercato con regole nuove, potrebbero andare molto peggio (in altri settori così come nello stesso giornalismo, essendo la sua una testata tutto sommato forte), resta comunque difficile quantificare economicamente alcuni valori propri della professione, alla luce di questa nuova moneta: «abbiamo bisogno di adattarci velocemente, ma non possiamo perdere l’essenza, il cuore, quel giornalismo che fa del Times il Times».

I numeri, messi in fila testata per testata da Joe Pompeo su Capital New York, parlano di un’importante riduzione del numero di giornalisti impiegati nei soli quotidiani negli Stati Uniti: secondo l’American Society of News Editor, ad oggi sarebbero 36.700 contro i 55mila del 2008, quando crisi economica e shift strumentale e culturale (sia per il giornalismo che per la pubblicità) hanno accelerato questa tendenza. E se per Dave Winer, in risposta a Carr, giornali come il Times dovrebbero rendersi conto del fatto che il loro valore è costretto quasi naturalmente a contrarsi se «non ci si apre al mondo» - «altrimenti poi il mondo farà quello che fai anche tu inventandosi un altro nome» - per Mathew Ingram non si tratta tanto di contare le teste o le copie perse, ma considerare quanto il giornalismo, in generale, stia crescendo grazie alle nuove possibilità: l’ex New York Times Jim Roberts - spiega - è andato rafforzare Mashable sulle hard news, l’ex Executive Editor Bill Keller e il suo The Marshall Project (ne avevamo parlato qui) stanno cominciando ad assumere: «l’orizzonte giornalistico si è allargato, e questa è una cosa buona».

Gli investimenti che vanno e vengono

Solo questa settimana, peraltro, ci sono stati alcuni annunci importanti: The Altantic ha trovato un nuovo Senior Editor, Gawker si è messo alla ricerca di un Executive Editor, BuzzFeed sta lanciando una redazione nella Bay Area, con occhi ben puntati verso la Silicon Valley, ed ha assunto l’ex Wired Mat Honan e l’Associate Editor del sito satirico Clickhole Daniel Kibblesmith. E se in Svezia - e in Italia - si sta varando più di una strategia per attrarre denaro e lettori con contenuti leggeri ad alta viralità, nel settore compassato e à la page del longform (basato su articoli lunghi e reportage ‘profondi’) ad un’alta natalità dei nuovi progetti starebbe corrispondendo un’altrettanto alta mortalità. Ad analizzarne il mercato questa settimana è Chris Ip per la Columbia Journalism Review. “Longform” è diventata una buzzword che ha estremizzato fino al “feticismo” la lunghezza dei brani proposti sui siti specializzati - spiegava James Bennet, Editor in Chief di The Atlantic -, tanto da rischiare da rendere i contenuti inutili o poco appaganti dal punto di vista culturale e commerciale: e così se nuovi progetti come quello di dell’ex direttrice del NYT e Jill Abramsom e Latterly Magazine si affacciano sul mercato, per qualcuno «c’è troppo longform nel mondo, ad oggi», come spiega uno di quelli che nel settore ci lavora, Glenn Flein di The Magazine. «C’è così tanta roba da leggere gratis, e senza pubblicità, che siamo irrilevanti. Perché uno dovrebbe pagare?». La sua creatura chiuderà i battenti questo mese, dopo aver perso più di due terzi dei suoi abbonati. Stessa sorte per Byliner, The Atavist, e per altri progetti di cui abbiamo scritto qualche mese fa, in piena “ondata longread”.

Per alcuni, comunque, i soldi continuano effettivamente ad arrivare. Una delle notizie della settimana infatti è stata quella del rifinanziamento di 46,5 milioni di dollari di Vox Media, da parte del fondo General Atlantic. Vox Media è un gruppo editoriale online americano (di cui abbiamo già parlato qui) noto principalmente per essere editore di siti come The Verge (specializzato in tecnolgia), SB Nation (sport), Polygon (videogiochi) e Vox.com - l’ultimo nato, diretto dall’ex Washington Post Ezra Klein e votato all’explanatory journalism. La notizia ha una certa rilevanza, perché con questo nuovo investimento il valore del gruppo Vox dovrebbe raggiungere una cifra stimata attorno ai 400 milioni di dollari - praticamente 150 milioni in più dello stesso WaPost, costato a Jeff Bezos una cifra (250 milioni, appunro) che ormai viene presa come punto di riferimento per comparare tutti gli investimenti di questo livello. Attualmente il valore raggiunto da Vox - struttura che conta 350 dipendenti - corrisponde a circa 7 volte le entrate attese per il 2014, una discrepanza che è il segno di quanto il mercato voglia investire sulla piattaforma - spiega il CEO del gruppo Jim Bankoff annunciando la cosa allo staff, su Linkedin. «Giornali e riviste stanno cominciando a essere disrupted, e icanali via cavo saranno i prossimi. Penso che un sacco di investitori si stiano guardando attorno dicendosi ‘Questa sì che è una nuova opportunità’».

La pubblicità che scappa

L’opportunità vera, in questo senso, è quella del nuovo scenario pubblicitario. Non è un segreto che in un mercato ricco di contenuti relativamente gratuiti per il lettore, l’inserzionista rappresenti spesso la base economica per queste imprese. Vox Media sta lavorando molto per rendersi appetibile di fronte a nuovi investimenti (a partire dal progetto Vox Creative), proponendosi - come spiega Brian Stelter su CNN Money - come prodotto di alta qualità nei confronti del quale gli inserzionisti trarrebbero un certo vantaggio ad allinearsi. Ma la concorrenza, da questo punto di vista, è agguerrita.

Secondo Peter Kafka su ReCode, Vox Media dichiarerebbe lo stesso monte visite mensili di BuzzFeed (un audience di 150 milioni di visitatori) raccogliendo più o meno le stesse cifre in termini economici, ma arrivando a una valutazione totale che corrisponde a metà di quella di del sito di Jonah Peretti (circa 850 milioni di dollari). Com’è possibile? Se l’è chiesto Chris Sutcliffe su TheMediaBriefing, dandosi questa risposta: BuzzFeed rende più facile, naturale, e condivisibile la pubblicità native sul proprio sito, «col vantaggio di essere costruita apposta per i social media» come ogni contenuto della testata, rendendosi così più appetibile per chi ha voglia di investire il proprio denaro in spazi o progetti innovativi. Un vantaggio per nulla irrilevante, adesso che si scopre che il 56% della pubblicità online non verrebbe proprio vista dagli utenti.

Secondo uno studio di Google sulla ad-viewability, infatti, più di un utente su due non si accorgerebbe delle inserzioni online, un dato sul quale la stessa compagnia di Mountain View, per ammissione di Phil Miles di Google UK, vuole lavorare assieme a editori e inserzionisti «per rendere la viewability una parte ancora più importante del nostro ecosistema». Google e Facebook, d’atro canto, secondo alcune stime rappresenteranno insieme più della metà del mercato pubblicitario digitale del Regno Unito - per l’esattezza, il 50,8% della spesa totale prevista per il 2015 su siti online, smartphone, video e social network. Da segnalare che, secondo eMarketer, la presenza commerciale delle due company a livello pubblicitario nel mercato britannico è più o meno uguale a quella del mercato digitale pubblicitario globale. Da qui la necessità di inventarsi nuovi strumenti per attrarre gli investimenti, che intanto stanno andando altrove.