Siria: la guerra, i media, le verità

"Nella mia professione di giornalista non ho mai incontrato la verità. Per questo abbiamo deciso di utilizzare il plurale: le verità. Così è corretto".

Ugo Tramballi, inviato speciale del sole 24ore, apre con questa frase il panel. Le verità di cui parla Tramballi sono quelle inseguite dai media all'interno del conflitto siriano. Proprio questo è stato il focus dell'incontro tenutosi oggi presso la Sala del Dottorato. "Riferire della guerra è una grossa sfida. Si viene sempre accusati di dar più spazio ad una parte dei belligeranti", afferma Sam Dagher, inviato in Siria del Wall Street Journal. La situazione adesso per i giornalisti è cambiata. Se in un primo momento i ribelli erano ben disposti nei confronti degli operatori dell'informazione, perché credevano che l'eco mediatica data al conflitto potesse aiutarli a sradicare il regime, col passare del tempo, quando ci si è resi conto che questo non accadeva, l'iniziale benevolenza si è tramutata in aperta ostilità. "Non esistono più luoghi sicuri per i giornalisti stranieri in Siria. È diventato difficile accedere al paese e chi ci riesce rischia di essere rapito o recluso - spiega Marwan Maalouf, cofondatore dei Menapolis -. Questo perché i siriani non sentono più l'esigenza di diffondere all'esterno notizie sul conflitto, non avendo impatto su una risoluzione della questione. La sensazione è quella di essere inermi". La scarsa collaborazione dei media col popolo siriano non garantisce una buona informazione, che il più delle volte tende ad emergere solo a seguito di episodi cruenti, maggiormente in grado di catturare l'attenzione del pubblico. Con lo scoppio della crisi ucraina, inoltre, il conflitto siriano è stato privato di ulteriore spazio mediatico. Chi ne parla molto spesso mette in luce solo una faccia della vicenda, ossia quella a loro più funzionale. Maalouf cita i casi di Al JAzeera e Al Arabiya, che per l'avvocato hanno prestato il "servizio peggiore".

Gli speaker hanno risposto a numerose domande rivolte dal pubblico in sala, con posizioni spesso tra loro divergenti. Come il caso della questione sull'intervento americano. Posizione complottista quella assunta da Sakhr Al-Makhadhi, giornalista di J Magazine, secondo cui gli Usa "hanno un grande interesse a far si che il conflitto continui". Diverso il pensiero di Dagher, che ritiene il mancato intervento statunitense una scelta ragionata volta a scongiurare il ripetersi dell'esperienza in Iraq.

Anche Tramballi ha voluto porre una domanda agli altri ospiti: "Quando finirà il conflitto?". È Maalouf a dare una risposta: "nel momento in cui ogni parte belligerante si renderà conto che non c'è più nulla da vincere". La speranza manifestata dagli speaker è che non si spengano i riflettori intorno a questo sanguinoso scontro e Tramballi ha ricordato come l'obiettivo di questo incontro sia stato proprio un invito a non dimenticare questa tragedia.

Camilla Valli e Silvia Renda