Giornalismo: è una questione di (s)fiducia

Questa settimana in RoundUp: alcuni episodi che ruotano attorno alla fiducia riposta - e spesso tradita - del lettore nei confronti della stampa, sempre più bassa secondo un sondaggio inglese: il caso della blogger Maria Popova, che non ha mai segnalato l'affiliazione a programmi di finanziamento per il proprio sito malgrado le donazioni dei lettori, e quello della controversia tra Tesla e New York Times, che vede al centro del dibattito la recensione di un'auto che, secondo i dati raccolti e pubblicati dall'azienda automobilistica, si sarebbe rivelata un falso. E infine, Filloux invita giornalisti e settore a dare vita a un «nuovo giornalismo digitale».

di Vincenzo Marino

Poca fiducia nel giornalismo

Questa settimana sul blog RendezVous dell'International Herald Tribune Harvey Morris ha approfondito il tema della fiducia nei confronti del giornalismo, prendendo spunto da un sondaggio Ipsos MORI che ha interrogato 1018 cittadini britannici chiedendo quale fosse il loro livello di rispetto nei confronti della stampa. I risultati emersi presenterebbero un quadro estremamente sconfortante: solo un intervistato su cinque (esattamente il 21%) avrebbe dichiarato di riporre fiducia nella classe giornalistica, a pari merito coi banchieri, di poco sopra ai politici (18%) e addirittura sotto gli agenti immobiliari (24%). Un risultato piuttosto magro, se si considera il dato 'bizzarro' - continua Morris - registrato dai presentatori televisivi, che vengono accreditati, secondo la ricerca, del 70 percento - quasi quattro volte di più - ponendo così l’accento sul mezzo più che sul ruolo pubblico del giornalista, giudicato probabilmente troppo contiguo a un ambiente ritenuto degno di sfiducia come quello politico.

Da qui i livelli simili fra giornalismo e partiti: non a caso, secondo l'autore, dati così bassi corrispondono a un sostanziale discredito della classe politica in Gran Bretagna, da affiancare a episodi che hanno certamente contribuito a minare la credibilità della professione come lo scandalo intercettazioni al News of The World e le successive criticità derivanti dalla Leveson Inquiry. Senza dimenticare la continua ‘corsa verso il basso’ dei contenuti, dettata da una sempre maggiore urgenza alla sovrapproduzione e alla rapidità di pubblicazione - rammenta David Carr, citato da Morris - a minori disponibilità economiche e a ranghi progressivamente ridotti. «Il trend, per molta parte dei media, è puntare su scandali, dibattiti e opinionismo», spiega John Lloyd, editorialista del Financial Times, lamentando l'assenza di un giornalismo fondato su «racconto obiettivo, inchieste e analisi razionali», peculiarità in via d’estinzione.

La pubblicità sui blog: Maria Popova e gli affiliate link

Proprio in questi giorni negli Stati Uniti, nel settore del giornalismo online, ha tenuto banco un caso che si fonda su credibilità dell'autore e fiducia 'tradita' nei confronti del lettore. Al centro del dibattito la blogger Maria Popova, collaboratrice di siti come The Atlantic e apprezzata tenutaria del blog Brainpicking, una pagina da 500 mila visitatori unici mensili vanto dell'autrice per qualità dei contenuti e per la loro consultazione totalmente gratuita e ad-free. Nessun banner pubblicitario né post a scopo promozionale: solo donazioni dei fedeli lettori, in stile The Dish di Andrew Sullivan, che le hanno permesso, come sempre e fieramente sostenuto, di sopravvivere quasi esclusivamente di quello. In settimana però un blogger anonimo, il cui nome (Tom Bleymaier) è stato rivelato in seguito, ha fatto i conti in tasca alla blogger e al finanziamento di Brainpicking, basato sui cosiddetti affiliate link. Si tratta di collegamenti inseriti nel testo a libri e altri prodotti citati che riconducono a siti di e-commerce - Amazon su tutti - che avrebbero provveduto al pagamento di una somma per ogni lettore portato sulle loro inserzioni. Per un giro d'affari che, secondo Bleymaier, potrebbe arrivare a toccare quota 400 mila dollari all'anno.

Il caso ha sollevato più di una questione: innanzitutto, il rinfocolarsi dell'ormai classico dibattito sul native advertising e gli sponsored content (di cui, episodio più eclatante, quello dell'articolo su Scientology di The Atlantic), un tipo di contenuto editoriale a carattere pubblicitario debitamente segnalato - diversamente dal caso in questione. In secondo luogo, si tratterebbe del crollo delle speranze di sostenibilità economica per il blogging, e in particolare per quello di qualità, di cui Brainpicking sembrava essere l’esempio. Infine, non ultima, la questione etica, che rimanderebbe all'utilizzo delle cosiddette disclosure: spiegare ai lettori, semplicemente, che si sta guadagnando dall’inserimento di determinati contenuti. Tanto più se si fa di indipendenza economica e ‘genuinità’ una bandiera, una fonte di sopravvivenza e una ‘patto’ fiduciario fra lettore e autore - nota Felix Salmon di Reuters. Maria Popova, imbeccata da Mathew Ingram su Twitter, ha ammesso di non aver pensato che le dovute segnalazioni fossero d'interesse per i suoi lettori, e promesso di aggiungere una nota nella sua pagina delle donazioni per rendere più chiara e evidente l'affiliazione a programmi di finanziamento.

Verificare i dati: la controversia tra New York Times e Tesla

Ma questa settimana è stata anche quella del caso Tesla-NYT. Tutto nasce da un articolo di John Broder per la testata americana: una recensione della “S Model”, un’auto elettrica della Tesla, messa a disposizione dall'azienda per un viaggio di prova da Washington a New York. Il pezzo, uscito il 10 febbraio, si rivela una vera e propria stroncatura: inaffidabilità energetica anche in condizioni favorevoli (riscaldamento basso, velocità nei limiti), tempi di ricarica lunghi, cattive prestazioni. La casa di produzione, però, non si è limitata ad incassare le critiche: in un post sul blog aziendale, il CEO Elon Musk ha infatti pubblicato e analizzato i log del computer di bordo - installato come da prassi aziendale in situazioni del genere - che ha incamerato dati d'utilizzo della vettura che smentirebbero l'articolo del Times, definito senza mezzi termini «un falso»: il reporter avrebbe infatti utilizzato l’auto in modo improprio, viaggiando ampiamente oltre i limiti, a riscaldamenti accesi e senza seguire le indicazioni sulle modalità di rifornimento.

Un episodio, anche questo, che ha portato al dibattito giornalistico nuovi spunti: in prima battuta, la messa in discussione del reporting giornalistico, che in epoca di grande disponibilità e pubblicità di dati, può essere smentito o quanto meno messo in discussione data la facilità di controllo delle fonti. Di conseguenza, la figura stessa del giornalista finirebbe col perdere la funzione di depositario unico e portavoce di eventi e prodotti prima inaccessibili, ma adesso analizzabili e confutabili da altri attori (cittadini, aziende), mettendo di nuovo a rischio - tornando al tema iniziale - il rapporto di fiducia tra autore e lettore. In secondo luogo, è interessante notare, come fa Dan Frommer, che a contestare i dati sia stata l'azienda stessa, che un tempo avrebbe semplicemente risposto con un avviso a pagamento o contattando un giornale concorrente. Oggi, continua Frommer, ogni company è una media company, e Tesla in questo caso ha potuto ribattere in piena indipendenza, da un semplice blog, diventando fonte stessa della notizia - come invece sottolinea Dave Winer - dimostrando come il potere della stampa, come sola entità mediatica, sia costretto a venire sempre meno. Questo non vuol dire che chiunque abbia un centinaio di follower su Twitter possieda automaticamente anche una ‘potenza di fuoco’  pari a quella del New York Times, aggiunge Ingram su PaidContent, ma di sicuro - nel bene e nel male - porta a dover rivedere molto del senso e del metodo del lavoro giornalistico.

Il «nuovo giornalismo digitale»

E sul futuro della professione e la creazione di un nuovo giornalismo digitale si è esercitato questa settimana anche Frédéric Filloux su MondayNote. Il general manager francese ha invitato i giornalisti a trovare un nuovo approccio alla professione, che non segua più gli stessi processi coi modi e nelle forme del dopoguerra, con la stessa struttura testuale tesa al soffocamento del pensiero dell'autore e degli elementi di 'colore' dietro scenari oggettivi e citazioni altrui. Schemi del secolo scorso, riprodotti anche su quei siti che ancora adeguano i loro articoli sugli standard 'cartacei', e che dovrebbero essere rivisti in modo da venire incontro ai mutati gusti dei lettori rispettando il loro impegno 'temporale' (definito «readers' time budget») dedicato alla lettura. «Readers no longer demand validating quotes that weigh the narrative down. They want to be taken from A to B, with the best possible arguments, and no distraction or wasted time».

Altri punti chiave della nuova professione, secondo Filloux, sarebbero - ancora - la fiducia nei confronti di autore e brand, che dovrebbe portare il lettore a confidare nella veridicità del prodotto, giunto nelle sue mani come sintesi di un lavoro anche dieci volte più lungo e che dovrebbe portare - in questo scambio - a snellire il racconto e a portarlo su nuove tracce stilistiche, fortemente riconoscibili (si veda sul tema «Some shift in power visible in journalism today» di Jay Rosen, sul valore della visibilità e il rapporto tra autore e editore). Probabilmente qualcosa di più simile ai blog - altro punto toccato dall’autore - finiti con l'essere paradossalmente più interessanti degli articoli di giornale. Ma a differenza di questi gratuiti e tenuti fuori dai paywall, col risultato che non si monetizzano contenuti originali degni di affrancarsi dall'etichetta di «genere secondario», e non si retribuisce adeguatamente chi quei contenuti li ha prodotti.

Morale: i media digitali hanno bisogno di inventare nuovi generi, una chiamata al nuovo giornalismo dal quale passa il futuro della professione. E che se per Paul Smalera di Reuters, su Medium, è un processo che deve vedere al centro il giornalista, per Filloux invece investirebbe l'intero settore editoriale: «Mentre la blogosfera non ha ancora trovato il suo Tom Wolfe - conclude - l'industria giornalistica ha un ruolo chiave da coprire: potrebbe cavalcare questa essenziale evoluzione nel giornalismo. Fallire, in questo senso, porterà solo al su declino».

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