Il declino dei giornali non è colpa di Internet

Questa settimana in RoundUp: teorie sulle cause del declino dei giornali: non internet ma disaggregazione sociale, e l'ascesa di nuove piattaforme  competitive dal punto di vista pubblicitario; il crollo di un altro paywall e la continua ricerca di un nuovo modello di business; il lungo profilo del New Yorker sul Guardian e la sua strategia 'espansiva'; una ricerca sulla presenza delle donne nei media, sottorappresentate a tutti i livelli.

di Vincenzo Marino

Perché i giornali sono in declino?

Questa settimana uno degli articoli più discussi sul mondo del giornalismo e le sue evoluzioni viene dal Journal Inquirer del Connecticut, e in particolare dal suo Managing Editor Chris Powell. La tesi del pezzo parte da presupposti noti: il giornalismo è in crisi di vendite, deve ricalibrare la sua funzione all'interno della società, e il fatto che al suo declino coincida l'ascesa di Internet non rappresenta né una scusante né un alibi. Secondo Powell i giornali, in effetti, hanno ancora una funzione fondamentale - specie a livello locale - ma la loro crisi sarebbe da addebitare alla poca disponibilità dei lettori a pagare per le news: siamo sicuri, si chiede, che le notizie interessino ancora a qualcuno? In un contesto nel quale la politica è avversata come noiosa - se non controproducente - burocrazia, e povertà e paura immiseriscono il senso di comunità, la disintegrazione sociale potrebbe essere la prima causa di questo disinteresse per l’attualità, per ciò che succede fuori dalla porta di casa: «Se non hai voglia di sapere o te ne importa poco è un tuo diritto, ma è un problema più grande del giornalismo» - l'articolo tra l'altro ha suscitato più di una polemica in rete per un passaggio controverso sul lettorato medio dei quotidiani e la famiglia 'tradizionale'.

Su Bloomberg.com, Megan McArdie inquadra un'altra delle cause di questo declino. Giornali storici che sembravano colossi invincibili hanno perso drammaticamente la loro quota di mercato quanto la loro influenza sull'industria pubblicitaria: dopo i fasti di un passato quasi monopolistico, i quotidiani hanno dovuto fronteggiare la concorrenza di nuovi canali  che, piuttosto che sottrarre l'attenzione dei lettori (sui quali, per 'costituzione', non puntano), hanno conquistato quella degli inserzionisti, compromettendo per sempre il mercato e relegando loro eredità digitali a competere non più con altri news outlet, ma con piattaforme di vario tipo in grado di ospitare pubblicità. Secondo eMarketer, per esempio, Google, Yahoo!, Facebook, AOL e Microsoft deterrebbero da sole i due terzi della spesa digital del 2012 quanto a investimenti pubblicitari: la gente non arriva più agli articoli nel modo in cui i media vorrebbero e si sono aspettati per anni, spiega Tim Lee del Washington Post, e ciò perché «piuttosto che trasformare i lettori cartacei del WP in lettori digitali del WP, li abbiamo trasformati in utenti di post che si trovano su Google, o Facebook, o Twitter». La partita, quindi, si deve giocare contro altre squadre: nuove, meglio organizzate e perfettamente aderenti ai gusti e alle abitudini dell'utenza media odierna.

“Ci sono molti modi”

La disponibilità a pagare per le notizie è effettivamente calata, specie tra i giovani - per i quali, secondo una ricerca del Pew center, i giornali hanno quasi completamente perso ogni loro attrattiva. Questa settimana Karthika Muthukumaraswamy ne analizza i processi e le evoluzioni su Huffington Post. C’è poca voglia di contribuire economicamente per i contenuti online, ravvisa, ma esiste comunque una piccola nicchia di consumatori disposti a finanziare progetti, persino a farli nascere: è l'esempio del crowdfunding, ciò che Brooke Gladstone ha definito "consumer surplus”, che dal punto di vista dell'informazione digitale ha il suo caso più esemplare nel blog di Andrew Sullivan, finanziato da un paywall elastico a 19.99 dollari all'anno (ne avevamo già parlato qui). La propensione a personalizzare le notizie, nella scelta degli autori da sostenere e per le aree tematiche da seguire, appare sempre più evidente: una tendenza nata con l'abbonamento ai feed rss e sue derivazioni, giunta adesso ai 'magazine personalizzabili' per strumenti mobile (Flipboard, Zite, Pulse), alle applicazioni per la lettura lean-back (Instapaper, Pocket) e altri progetti ancora in fase embrionale (Circa, CrowdNe.ws). C'è chi - lontano dal mondo del giornalismo - ha la capacità di stuzzicare il portafogli dei clienti come Amazon e Apple, spiega Ken Doctor, e non è detto che un approccio simile, modello iTunes (come anticipava un post di Benton del 2011), possa risultare una cattiva soluzione al crollo del sistema-paywall e dell'informazione gratis.

«Ci sono molte opportunità per fare un buon lavoro in tanti modi», ricordavano Anderson, Bell e Shirky in Post-Industrial Journalism. Ma il problema, rammenta, Dean Starkman sulla Columbia Journalism Review, è che i soldi vanno altrove e i numeri purtroppo «non mentono», come dimostrano anche i dati sulla situazione tedesca, laddove i giornali sembrano affrontare una crisi persino più veloce che negli Stati Uniti. Un altro paywall infatti è caduto proprio questa settimana: il Dallas Morning News è il secondo quotidiano online di grandezza rilevante a fare marcia indietro sul "muro" a pagamento dopo il San Francisco Chronicle, e la proprietà ha deciso di garantire la gratuità dei propri contenuti a partire dal primo ottobre. Le ragioni sono state espresse chiaramente dal CEO Jason Dyer: «Non ha funzionato. Non c'è stata nessuna ondata di abbonati». «Nel primo quarto del 2011 siamo stati fra i primi a chiedere ai nostri lettori a pagare per i contenuti digitali», ha aggiunto l'editore Jim Moroney. «Ora sperimenteremo un approccio diverso»: stando ai dati, risulta evidente come i lettori fossero disposti a pagare per un quotidiano non tanto per l'informazione in sé, quanto per il mezzo di distribuzione, per ciò che rappresentava («a print experience»). La sfida, ha concluso, è scoprire quanti di questi utenti sono disposti a pagare per un'esperienza «premium» in digitale.

Un Guardian più povero alla conquista del mondo

Tra i diversi approcci esistenti c'è quello del Guardian, il quotidiano inglese la cui proprietà è detenuta da un trust che ne protegge l'indipendenza, e che in rete ha deciso quasi 'ideologicamente' di pubblicare gratis tutti i contenuti prodotti. Questa settimana Ken Auletta del New Yorker dedica un lungo profilo alla testata, il suo direttore, la sua strategia globale e le cattive acque in cui naviga a livello finanziario. Negli ultimi anni si è infatti consolidata una linea più 'aggressiva', soprattutto per quanto riguarda il terreno delle inchieste, dei reportage e delle esclusive, nell’obiettivo di farne un marchio di fabbrica della testata: è stato così per l'affare intercettazioni che ha interessato il gruppo Murdoch, per il caso Wikileaks e per quello che ha coinvolto NSA e omologo britannico, per il quale ha dovuto - pur essendo la testata del giornalista-principe - condividere il lavoro col New York Times e ProPublica. «Abbiamo bisogno di diventare globali» ha ammesso al New Yorker il CEO del gruppo Guardian Media, e non a caso di recente la struttura americana della testata è stata rinforzata, è stato acquistato il dominio .com e nel 2012 è partita l'espansione del marchio in Australia: non potendo contare su paywall e affini il terreno sul quale competere è infatti lo stesso della BBC, concorrente all free onnipresente sul mercato anglofono, che garantisce un eccesso di offerta contro la quale però in Gran Bretagna, per ammissione dello stesso CEO, difficilmente riusciranno a sopravvivere.

Per quanto ancora può durare la filosofia del 'tutto gratis'? Se da un punto di vista meramente quantitativo questa strategia giornalisticamente avvincente pare stia dando i suoi frutti, portando il sito a piazzarsi al terzo posto fra i portali di news in lingua inglese più letti (dopo il Daily Mail e il NYT), ancora poco vantaggiosa sembra essere la sua notevole presenza online, che non riesce a tradursi in introiti vitali per la sopravvivenza del gruppo - che intanto comincia a dichiarare cose tipo «We are not the Taliban of free». Sicuramente peggio fa la carta stampata: la diffusione del giornale è crollata a 190 mila copie giornaliere, la metà rispetto al 2002, portando a perdite in nove anni consecutivi per circa 50 milioni di dollari. Le prospettive sono diverse: c'è chi crede che una redazione "troppo grande per il digitale" debba essere inequivocabilmente smantellata, chi - come Jeff Jarvis - immagina per il Guardian un futuro più leggero, votato quasi esclusivamente al digitale e un'edizione cartacea in edicola «solo in alcuni giorni». Un brand ancora molto forte, una voce riconosciuta globalmente come sentinella liberal, che avrebbe ancora la possibilità di far valere il proprio marchio e il proprio inimitabile lavoro investigativo - il vero valore aggiunto. Ma deve ancora capire esattamente come.

La scarsa presenza di donne nel giornalismo

Altro fra gli articoli più apprezzati di questa settimana è a firma Adrienne LaFrance, reporter del Washington Post. Il suo è uno studio sul sessismo nella produzione giornalistica che parte da un dato abbastanza chiaro: solo il 24% delle persone di cui si legge o sente parlare sui media è di sesso femminile (stando alla ricerca del 2010 di Global Media Monitoring Project), e i reporter che contribuiscono alle cosiddette hard news (politica, nera, economia, scienza) sono in netta maggioranza uomini (tra il 56 e il 67%). L'autrice ha quindi controllato tutta la sua produzione dall'agosto 2012 a quello 2013, immaginando di trovare dati più confortanti: nei suoi articoli redatti per il Post, NiemanLab, Denver Post, CivilBeat, FastCompany, Medium sugli argomenti più disparati (in totale 136, dalle elezioni del 2012 alla bomba alla maratona di Boston), solo 509 sono state le donne menzionate, contro i 1556 uomini registrati - e 52 dei suoi 136 post non contenevano nomi di donna. Esiste un margine d'errore, considerando per esempio che lo strumento di misurazione (un Gender tracker) non riconosce nomi come Hemingway o Beyoncé, ma la media è comunque sorprendente.

La ricerca, già di per se interessante per quanto riguarda le questioni di genere, trova interesse aggiuntivo se la si guarda dal punto di vista giornalistico: è vero che una delle prime giustificazioni da portare è quella che vorrebbe un risultato del genere come naturale trasposizione in numeri e parole di un mondo ancora fortemente maschile, nel quale le donne sono sottorappresentate a tutti i livelli, ma è anche vero che la cosa investe il senso della professione giornalistica e il suo ruolo all’interno di una società. Alla domanda «è il tuo lavoro a riflettere la realtà?»LaFrance si chiede se non sia possibile, invece, ribaltare i termini con la professione, facendo leva sul giornalismo per invertire la tendenza, sfruttare il forte fattore d'influenza che ancora esercita nella sfera pubblica, la sua «funzione critica», e cambiare le cose. Questo genere di sessismo, conclude, è un problema, «ma cambiare si può» se i singoli giornalisti e le grandi istituzioni mediatiche si mettono in gioco.