Politica e news: il dominio di Facebook e la democrazia

Questa settimana in RoundUp: il giornalista turco, direttore del quotidiano Cumhuriyet, per il quale i legali del presidente Erdoğan hanno richiesto l'ergastolo; Facebook è il mezzo principale dal quale i giovani leggono le notizie politiche, più della tv - che vuole soppiantare, che tu sia inserzionista o semplice utente; i social e la conversazione: perché interagire coi lettori conviene, e quali possono essere i rischi.

di Vincenzo Marino

Il giornalista turco che rischia l’ergastolo

Questa settimana i legali del presidente turco Erdoğan hanno accusato il direttore del giornale locale Cumhuriyet Can Dündar di spionaggio, chiedendone l’ergastolo. Il quotidiano, da tempo critico nei confronti del presidente e del suo partito (AKP), aveva pubblicato dei filmati che dimostravano come l’agenzia statale d’intelligence avesse contribuito all’invio di armi in Siria per aiutare i ribelli, mascherando l’operazione come aiuto umanitaro.

L’inchiesta è stata aperta il 29 maggio scorso, a pochi giorni dalle elezioni parlamentari, quando Cumhuriyet ha pubblicato un articolo del proprio direttore che conteneva foto e link al video online che mostravano la tipologia e la quantità di lanciagranate e munizioni nascoste in alcuni camion turchi al confine con la Siria nel gennaio del 2014. Can Dündar è attualmente accusato di reati come “crimini contro il governo” e condivisione d’informazioni sensibili per la sicurezza nazionale.

Foto via Wikimedia Commons

Negli scorsi mesi le autorità turche avevano vietato ai media di parlare della vicenda: il quotidiano locale Daily Sabah, il 31 maggio scorso, riporta che lo stesso primo ministro Ahmet Davutoğlu aveva spiegato ai giornalisti che la faccenda doveva restare “Affare di nessuno”.

“La persona che ha scritto quell’articolo pagherà a caro prezzo per questa cosa”, è stata la reazione di Erdoğan. “Nessuno resterà impunito”, ha minacciato davanti alle telecamere della tv di Stato TRT Haber. In un editoriale del primo giugno scorso, Dündar ha difeso la decisione di pubblicare il pezzo spiegando che il mestiere del giornalista “non è nascondere segreti di Stato”, e che la copertura della vicenda, da parte del giornale, continuerà “nell’interesse del paese, del popolo e dei media”.

La libertà di stampa in Turchia soffre da anni di gravissime minacce. Non bastasse il feroce pacchetto di riforme sulla sicurezza interna, che impone misure restrittive nei confronti di stampa e espressioni di pubblico dissenso, nei mesi scorsi il numero di giornalisti ostili al governo fermati dalla polizia è notevolmente aumentato. Freedom House parla di “Forte deterioramento della libertà di stampa” nel paese a partire dalle manifestazioni di Gezi Park nel 2013, quando molti giornalisti vennero “intimiditi e attaccati mentre cercavano di riportare news” dalla piazza.

L’ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo ha ospitato Efe Sozeri, ricercatore dell’Università di Amsterdam e esperto sui temi della censura in Turchia, e Yavuz Baydar e Andrew Finkel della ONG “P24”, che monitora e promuove la libertà d’azione e di pensiero dei media nel paese. Qui e qui trovate le loro testimonianze.

Facebook vuole diventare la tua nuova TV

Una delle notizie più rilevanti e discusse della settimana, dal punto di vista dei media online, è stata quella della nuova ricerca del Pew Center su come e quanto i giovani si informano sulla politica. Secondo lo studio, il 61% dei millennial (prendendo in esame i cittadini americani nati tra il 1981 e il 1996) arriverebbe alle news politiche da Facebook, relegando la tv come fonte di informazione primaria al 37%. Di contro, il dato dei baby boomer (i nati tra il ‘46 e il ’64) sarebbe pressoché speculare (39% Facebook, 60% TV).


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La ricerca suggerisce ancora una volta quanto Facebook sia attualmente centrale nella formazione di idee e preferenze delle persone. Caitlin Dewey sul Washington Post ricorda che gli adulti americani che utilizzano Facebook sono un numero abbastanza alto da determinare il risultato di elezioni nazionali, rischiando di influenzarne i risultati basandosi su credenze e giudizi generati su una piattaforma di cui non si conosce il funzionamento. "Il problema è che sempre più persone usa Facebook per cose sempre più importanti, senza capire interamente come funziona" spiega Dewey: secondo una ricerca dell'Università dell'Illinois, il 62,5% degli intervistati non ha idea di come Facebook sceglie i post che appaiono nelle loro bacheche. Facebook, in sostanza, "doesn't show you everything". E non tutti lo sanno.

Gli americani infatti, secondo una studio della società di digital analytics Flurry, starebbero trascorrendo già adesso più tempo su smartphone e tablet che guardando la televisione. “When it comes to political news, Facebook has become local TV for millennials” riassume Joseph Lichterman su NiemanLab. E non si può escludere che i piani della società di Zuckerberg, in fondo, non siano poi tanto diversi da questa prospettiva: quella di imporsi come “tv” del prossimo futuro. Erin Griffith nell’ultimo numero di Fortune Magazine, ripercorre l’incredibile - e in un certo senso naturale - ascesa di Facebook come veicolo di contenuti video.

Le ore di filmati caricati e visti su Facebook sono infatti cresciute vertiginosamente negli ultimi mesi, arrivando a contare 4 miliardi visualizzati video ogni giorno, quasi quattro volte il dato del 2014. Un esempio su tutti lo fornisce Chris Cox, Chief Product Officer di Palo Alto: l’estate scorsa le timeline Facebook del mondo sono state invase dall’Ice Bucket Challenge, fenomeno virale di beneficenza che ha portato alla visione di secchiate d’acqua gelida ben 440 milioni di utenti, per circa 10 miliardi di view totali. In quello stesso periodo, per Ice Bucket Challenge, YouTube annunciava solo 1 miliardo di visualizzazioni. Un decimo.

Si tratterebbe di un risultato frutto di un’attenta strategia per rendere Facebook il mezzo più facile e veloce sul quale vedere e caricare istantaneamente filmati, e condividerli con chi si vuole li veda in un formato accessibile ovunque. Siamo già diventati “sinonimo di mobile” - assicura Carolyn Everson, vice presidente delle global marketing solutions. “La prossima frontiera è diventare sinonimo di mobile video”.

È così che nel giro di un anno il numero dei video condivisi direttamente via Facebook su Facebook - e non tramite altre piattaforme, da linkare poi sul social - è passato dal 25% al 70% di tutti i video condivisi, diventando un’occasione imperdibile per le testate online.

For creators with more than a million Facebook fans, photo posts reach 14% of their audience on average, and text-only updates reach just 4%, according to one manager of content creators. But video posts? They reach 35%

Siti come Buzzfeed e Mic, per esempio, hanno visto crescere le proprie visualizzazioni video in maniera esponenziale, arrivando a toccare - nel primo caso - 500 milioni di view nell’aprile scorso, e aprendosi a nuovi e diversi benefici che vanno dal maggior engagement per la propria pagina (i video vengono indicizzati meglio nelle bachece degli utenti) a uno scenario tutto nuovo per il mercato pubblicitario - specie se si considera che secondo eMarketer Facebook da sola detiene un quarto del giro d’affari del comparto su mobile.

I video sul telefono sono infatti un ottimo mezzo, per gli inserzionisti, per arrivare ai propri potenziali consumatori, in buona parte già perfettamente analizzati e profilati dallo stesso social network che ne conosce dati anagrafici, abitudini, amicizie e gusti.

The TV money is coming
(Richard Raddon, co-CEO of Zefr)

La creatura di Zuckerberg, spiega l’articolo, appare il modo più naturale per velocizzare il passaggio degli investimenti dalla pubblicità televisiva a quella digitale (di cui avevamo parlato anche la settimana scorsa), e in un certo senso permette agli investitori di pensare a inserzioni non troppo dissimili da quelle televisive, dai classici “spot”. Facebook, in sostanza, vorrebbe diventare la tua nuova TV - che tu sia una media company, un’inserzionista pubblicitario o un semplice utente internet.

Interagire coi lettori fa bene - ma occhio

Il social network californiano tuttavia non ha ancora offerto un modo a facile e veloce per monetizzare, continua l’articolo di Fortune. È come se, in un certo senso, invitasse tutti dicendo la gente è qui, “access our massive audience”, con il potenziale che ne deriva. Tablet Magazine, per esempio, ha deciso nelle settimane scorse di scoraggiare la pubblicazione di commenti sul proprio sito rendendoli a pagamento, deviando la discussione pubblica sulla pagina Facebook. E scoprendo - per bocca del direttore Alana Newhouse - che la cosa ha prodotto l’effetto sperato: “la qualità dei commenti è cresciuta, mentre il traffico sul sito non ha subito contraccolpi”.

Certamente constatare il livello di partecipazione della propria community non è cosa di facile contabilizzazione, “engagement is something that happens in your heart and mind… It’s an emotion”, ha spiegato questa settimana James G. Robinson (responsabile di analytics e audience del New York Times) al World News Media Congress di Washington, presentando il progetto NYT Subreddit - una stanza su Reddit creata dalla testata nella quale discutere coi propri lettori. L’obiettivo del suo programma, spiega, non è cercare volumi di traffico, né quantificare quanto la discussione possa essere monetizzabile: “Talvolta troviamo discussioni tremende, altre volte sembrano essere di valore. Ed è proprio questo valore inaspettato che noi cerchiamo di cogliere”.

Ma come ci si deve comportare con la propria community quando si opera per conto di una testata, o si interagisce personalmente? La condotta social non è del tutto ininfluente, spiega una ricerca dell’Assistant Professor in Journalism and Communication della Lehigh University, Jayeon Lee, pubblicata questa settimana. Lo studio, basato sull’osservazione di quattro diversi profili Facebook da parte di 267 studenti, sottolinea come interagire nei commenti, per un giornalista, aiuterebbe a infondere nei lettori un pregiudizio positivo nei suoi confronti, pur con alcune eccezioni.

L’uso di un linguaggio poco appropriato (per esempio, l’uso eccessivo di espressioni come “I agree”, concordo), o ancora l’alta frequenza di risposte ai lettori, il più delle volte risulterebbe suonare come “poco professionale”, se non addirittura dannoso, per la propria reputazione - come a voler suggerire l’idea che l’autore non abbia niente di meglio da fare che stare sui social network. “A journalist’s online behavior has an impact”, spiega Natalie Jomini Stroud, che riporta la ricerca sull’American Press Institute la ricerca, ma “non sempre in senso positivo”.