Quanto sei disposto a pagare per le news digitali?

di Vincenzo Marino

I giornali come cavalli

Il 5 agosto scorso il CEO di Amazon Jeff Bezos ha acquistato il Washington Post per circa 250 milioni di dollari. Con l'acquisizione della storica testata l'imprenditore si è però garantito anche qualcosa di più che un simbolo - in declino - del giornalismo mondiale: lo status di riconosciuto esperto di media digitali, al quale con cadenza quasi settimanale vengono chieste sensazioni e prospettive per i suoi prodotti e per l'intero settore. Questa settimana Bezos ha spiegato alla NBC che non ha intenzione di garantire al Post una vita cartacea troppo duratura, e che presto o tardi sarà chiaro a tutti, così come è chiaro a lui da un bel po' di tempo, che il giornale di carta non è altro che «un bene di lusso, come avere ancora dei cavalli: non è proprio il mezzo principale sul quale andare a lavoro» (di un'informazione per ricchi e una per poveri avevamo parlato nelle scorse settimane, qui).

«Ha sia ragione che torto», sintetizza Mathew Ingram su PaidContent: anche se la transizione da un mezzo a un altro e da un intero sistema all'altro è evidente, sono ancora in molti quelli che - seguendo la metafora di Bezos - continuano a preferire il calesse alle automobili. Per questioni sentimentali, principalmente, ma anche per motivazioni più ‘ideologiche’: le auto - così come Internet - corrono veloci, inducendo molto più spesso e molto più pericolosamente all'errore - tesi che nel tempo è stata più volte avallata da chi cerca di opporsi a un'evoluzione ineluttabile, e che può benissimo essere capovolta pensando ai benefici scientifici, tecnici, industriali, culturali del trasporto su gomma e dell'informazione digitale. Quello che Bezos ha in testa è forse un mezzo più personale e social, più vicino ai caffé pre-stampa che alla carta, aggiunge Ingram: in questo senso, una sorta di ritorno al passato nei metodi di assunzione e discussione della notizia. E dunque una sfida per il CEO e la sua capacità d'adattare la sua vecchia-nuova creatura a questa realtà.

Se il declino costringe a innovare

È lo stesso atteggiamento col quale molti protagonisti dell'industria editoriale si confrontano con questo tipo di evoluzione sistemica. Sempre Mathew Ingram, in un altro post su PaidContent spiega che questo «inesorabile declino» per media company e giornali può essere vissuto in due modi diversi: da vittime che si compiangono parlando di Google come di un ladro di contenuti e riecheggiano i fasti di un’epoca ormai tramontata (quella dei «cavalli»), e chi - potendoselo permettere - invece sperimenta e cerca di imparare dagli errori e dalle risposte degli utenti. L'autore cita qualche esempio: oltre al caso Washington Post Ingram propone quello del Boston Globe, che ha lanciato di recente un aggregatore «Twitter-powered»di news - 61Fresh - che colleziona tweet con notizie locali raggruppate da un algoritmo su base geografica. Non è detto che un esperimento del genere possa salvare il Globe, spiega Ingram, ma è il chiaro esempio di come si possa giocare questa partita.

Altro CEO sempre più interrogato è Henry Blodget, editor in chief di Business Insider: Blodget ha spiegato questa settimana alla IAB MIXX Conference di New York che ritiene, questo, il periodo migliore per buttarsi nella mischia, la «golden age» del giornalismo: "il mondo è molto più informato ora di quanto non lo sia mai stato in tutta la sua storia", ha spiegato. E non solo grazie a news outlet convenzionali, ma anche a fenomeni come YouTube e i blog che hanno reso più facile la possibilità di creare e condividere notizie. Più scettico Ken Auletta del New Yorker, che ricorda al CEO come una via profittevole a questo 'magnifico panorama' non sia stata ancora trovata, e che c'è un intero continente - quello mobile - da colonizzare e rendere fruttuoso per un mercato come quello delle notizie che - come ricordava Jack Shafer il 15 agosto scorso - non è mai stato economicamente 'vantaggioso'.

Quanto sei disposto a pagare per le news digitali?

Sul tema della sussistenza economica è sempre Mathew Ingram a intervenire in questi giorni, con un post dal titolo provocatorio: «Sfortunatamente il giornalismo online non può sopravvivere senza ricchi benefattori e GIF di gatti». I modelli di business messi in campo in questi anni sono diversi, spiega, ma il giornalismo «serio» - come lo definisce - non è mai stato in grado di sopravvivere se non attraverso aiuti esterni. Le news hanno sempre avuto bisogno un sostegno finanziario, spiega l'autore, in un certo senso persino nei giornali ‘classici’, attraverso tutti quei prodotti di intrattenimento e servizio che servivano a finanziare quelli giornalistici (oroscopi, fumetti, orari di cinema e farmacie di turno). Tutti contenuti che hanno cominciato a perdere di senso sulla carta stampata nel momento in cui Internet si è proposto come risorsa più pronta e accessibile. La situazione, secondo Ingram, non suggerirebbe alle media company che quattro strade percorribili: trovare benefattori (alla Bezos), vivere di donazioni (stile ProPublica), sopravvivere tramite altri business (come AOL con Huffington Post) e concentrarsi sull'intrattenimento (BuzzFeed, le GIF e tutto il resto).

Ma quanta gente è effettivamente disposta a pagare per le news digitali? La domanda viene posta questa settimana da Alan D. Mutter, che fornisce alcuni dati e una prospettiva sicura: «Ora che un terzo dei giornali nazionali offrono contenuti mobile e web a pagamento, le prime esperienze dimostrano come l'audience digitale non sia per niente entusiasta di pagare». Se si prova ad esempio a comparare il numero degli abbonati al New York Times o al Wall Street Journal, rispetto a quelli di servizi digitali come Netflix e Spotify, il rapporto appare piuttosto eloquente: il solo Netflix - che nel settore regna indiscusso - conta 40 volte le sottoscrizioni del Times, una differenza che trova conferme ancora più frustranti nell’indice di penetrazione dei due quotidiani rispetto ai 2,4 miliardi di utenti internet mondiali (lo 0,04% per il WSJ e allo 0,03% per il NYT). Una disparità nella domanda fra news e contenuti di intrattenimento che suggerisce come «il mercato delle digital news sia meno robusto di quanto gli editori vorrebbero». Intanto secondo una ricerca presentata al SIIA Digital Content and Media Summit, pubblicazioni corte, regolari (più precisamente, settimanali) e per device mobile sarebbero più apprezzate e profittevoli di quelle più lunghe e mensili.

Il problema dei commenti online

È necessario mettersi dalla parte del lettore e renderlo partecipe (il già citato engagement) della vita della testata, del processo di costruzione e pubblicazione della notizia in tutte le sue fasi. Incuriosirlo, aggiunge Larry Kramer, editore di USA Today, alla Wrap's Media Leadership Conference: dare la giusta enfasi «all'importanza della scoperta», così da interessare gli utenti sia prima che dopo la lettura. E in questo, aggiunge, il giornale è ancora forte, un forziere di scoperte continue che si rivelano fisicamente pagina dopo pagina. Ma non basta: la «pubblicazione di un articolo - continua infatti Kramer - non è la fine del processo: ne è solo l'inizio, è innescare la conversazione». E che il significato del processo di discussione attorno alle news sia ormai sostanziale è dato evidente che emerge anche dalla forte rilevanza ottenuta dal caso di Popular Science in questi giorni, il sito di divulgazione scientifica che ha deciso di eliminare la possibilità di lasciare commenti in fondo agli articoli per non minare la qualità delle pubblicazioni e l'esperienza di lettura degli altri utenti.

Su The Atlantic Derek Thompson ha passato in rassegna lo stato del commento nell'editoria americana: c'è il caso di The New Republic, che li nasconde; c’è Quartz, che ha debuttato senza interventi dei lettori e che ora fornisce gli strumenti per annotazioni paragrafo per paragrafo; e ancora il caso esemplare del sistema Kinja, utilizzato dai siti dell’universo Gawker, che permette a ogni commentatore di fare di un proprio commento una sorta di post autonomo, alla stregua di quelli dei collaboratori della testata. Il dibattito sulla ‘pericolosità’ dei feedback è terreno d’analisi sin dalla genesi dell’informazione online, rinfocolato da episodi del genere: lo stesso Thompson, così come l’online editor e reporter John Kroll sul suo blog, non sa darsi un'opinione univoca. Kroll, per esempio, ne analizza tutti i pro e i contro: la sintesi delle diverse tesi contrapposte è che, stando a oggi, la libertà di commento è una scelta che comporta responsabilità e benefici quanto quella opposta, ma che se si intende davvero garantire questa libertà ai lettori, in fin dei conti, non basta che amministrare e moderare con pazienza i loro interventi (il post di Kroll, attualmente, è fermo a zero commenti).