Questo non lo leggi, ma lo condividi comunque

di Vincenzo Marino

Questa settimana in RoundUp: cosa c'entra WhatsApp, appena acquistato da Facebook per 19 miliardi, con il giornalismo?; BuzzFeed ha trovato un'alternativa agli articoli fatti con gli elenchi: i quiz; gran parte dei link condivisi su Twitter non sono stati mai letti.

WhatsApp e il giornalismo

Il panorama dei media digitali questa settimana è stato dominato dalla notizia dell’acquisto di WhatsApp da parte di Facebook per 19 miliardi di dollari, evento estremamente dibattuto che - sebbene a prima vista lontano dall’universo giornalistico - finisce con in qualche modo con l’invaderlo. Non fosse già degno di nota l’esborso record della società di Palo Alto, che come visto di recente ha cominciato a interessarsi al mercato editoriale, con l’acquisizione di WhatsApp Facebook intende trovare una collocazione in quell’area di consumo digitale in cui faticava ancora a inserirsi (come risulta più evidente in questa mappa pubblicata su Stratechery): nella campagna per il predominio sull’attenzione degli utenti (aspetto della vita digitale sempre più al centro delle ricerca e dell’offerta mediatica online), offrire un servizio come WhatsApp potrebbe aiutare a sfondare nel mercato delle comunicazioni social “a stretto raggio”, quelle personali, che cominciano ad avere una certa rilevanza anche dal punto di vista editoriale.

C’è una parte del traffico social, infatti, che continua a restare fuori dalle analisi dei feedback sugli articoli, ed è quello - appunto - derivante dalle condivisioni private via messaggi. Stando a quanto riportato da Liz Gannes su ReCode, WhatsApp avrebbe offerto a un ristretto gruppo di publisher (tra i quali Shazam e BuzzFeed) la possibilità di introdurre il bottone “Share on WhatsApp” sui propri articoli, da affiancare ai canonici “condividi” di Facebook e Twitter. Nella versione mobile (per iOS) di BuzzFeed, infatti, da ottobre è possibile scorgere il tasto verde che rende molto più facilitata la condivisione verso i contatti della rubrica. Portando numeri rilevanti, che parlano di un aumento di circa il doppio dell’utilizzo di questo servizio in pochi mesi: stando al presidente di BuzzFeed Jon Steinberg, le condivisioni verso il servizio di messaging sarebbero addirittura maggiori di quelle per Twitter: «Ogni volta che diamo un’occhiata ai numeri di WhatsApp restiamo stupefatti».

Più cauto Joshua Benton su NiemanLab, che riprende le stesse parole di Gannes: non è possibile che WhatsApp abbia superato Twitter in termini di condivisioni perché - per sua stessa ammissione - non si sa ancora se queste vengano effettuate verso un solo contatto o verso un gruppo con più persone. A essere maggiore, semmai, sarebbe il numero dei tap sul tasto verde e non i contatti unici generati.

I quiz sono utili all’editoria online? Sì/No/Non sa

In quell’area di aggiornamenti che non riguarda precisamente il giornalismo, ma prassi tecniche ed evoluzioni che possono concorrere a un suo sviluppo, questa settimana è stata anche quella dei quiz di BuzzFeed. Non si tratta di news quanto di semplici domande a risposta multipla che dovrebbero tracciare un profilo di chi risponde, e che avrebbero invaso Facebook negli Stati Uniti grazie alla loro altissima condivisibilità, la quantità di quiz prodotti e la vasta scelta di tematiche proposte. Si va dalla ricerca della città ideale («What city should I actually live in?») a quella dei personaggi televisivi più simili a chi risponde, fino al contro-quiz di SlateWhich BuzzFeed quiz are you») e quello più indicativo di Katie Notopoulos, che domandadosi «Should You Learn to code» offre una serie di risposte tutte riconducibili a dei post in cui si ritorna sul dibattito giornalistico di qualche mese fa, quello sulla necessità di imparare a usare i linguaggi di programmazione (la risposta, in un post evidentemente costruito via coding e che non fa altro che proporre in modo più giocoso una rassegna di link esterni, è ovviamente “sì”).

Caroline O’Donovan su NiemanLab si chiede se i quiz non siano i nuovi listcle, quel tipo di articolo formato elenco per il quale BuzzFeed è famoso. «La gente ha bisogno di organizzazione e struttura. È invitante», spiega Summer Anne Burton, managing editorial director del sito di Jonah Peretti. «C’è poi qualcosa di rassicurante: i quiz, come le liste, rendono i contenuti più accessibili», e fanno fondo all’istinto «narcisistico di essere categorizzati» continua Jordan Shapiro su Forbes, spingendo così alla condivisione e portando al cosiddetto - e tanto agognato - engagement. Ma c’è di più: strutture simili si predispongono quasi naturalmente a essere manipolate dal punto di vista pubblicitario: la sezione marketing della testata ha infatti accesso al template dei quiz e può proporlo agli inserzionisti, potendo così fare di un’inserzione (sulla scorta del native advertising) un contenuto capace di intrattenere e girare in modo praticamente gratuito sui social network (così come per i 5 tipi di contenuto in stile BuzzFeed che invogliano gli utenti alla condivisione, presentati questa settimana alla News:rewired Conference e che trovate qui).

Questo non lo leggi - ma lo condividi comunque

Di certo il lavoro giornalistico - sia esso individuale o di redazione - grazie a questi strumenti di racconto alternativo e complementare è radicalmente cambiato: non è più solo necessario stendere un articolo e pubblicarlo, ma lavorare sull’onda lunga della sua pubblicazione, saperlo promuovere, aprirsi al dibattito, in una continua ricerca del più alto numero di visite possibile da raggiungere attraverso un lavoro aggiuntivo che viene ormai considerato scontato anche dal punto di vista retributivo - lavorare il doppio per guadagnare sostanzialmente allo stesso modo (ne parlano Ricardo Bilton e alcuni esperti del settore questa settimana su Digiday). La lotta per l’attenzione, su mobile e desktop, rischia comunque di soffocare il primo obiettivo della ricerca ossessiva di contatti unici, commenti e condivisioni: la lettura. Questa settimana il CEO di Chartbeat Tony Haile si è lasciato sfuggire su Twitter che non esistono «correlazioni tra condivisioni social ed effettiva lettura». Sarebbe come dire, semplificando, che buona parte dei link che leggiamo su Twitetr non sono stati mai letti da chi li ha pubblicati (Schwartz, altro data scientist di Chartbeat, spiega che non c’è niente che non possa far credere che su Facebook non succeda la stessa cosa, nelle stesse proporzioni di Twitter).

In un articolo dal titolo «You are not going to read this» Adrianne Jeffries di TheVerge ha cercato di trovare conferme, trovandole – ancora – in BuzzFeed: la maggior parte dei tweet, gli viene riferito dalla testata, viene pubblicato quando non si è letto neanche una parola del pezzo (ossia con permanenza sul sito velocissima) oppure quando si superano i 3 minuti e mezzo di lettura (due per il mobile, in media). Ma quanti sono quelli che hanno davvero intenzione di informarsi mentre usano i social network? E quanti, di questi, fra i giovani? Secondo una ricerca di fine 2013, solo il 21% dei giovani americani tra 18 e 29 anni ammetteva di usare i social per consumare news. Il dato torna d’attualità dopo l’intervista della ricercatrice di Microsoft Danah Boyd su FastCompany a proposito del suo libro sui rapporti fra giovani e social network. Stando a Boyd, gli adulti userebbero Twitter in modo più professionale, per comunicare o costruire brand, mentre i giovani tenderebbero a usarlo senza utilizzare troppi link (quindi senza condividere articoli) e per lo più come mezzo di interazione interpersonale, fra loro e con le celebrità della cultura pop.