Una tassa sul web per salvare il giornalismo?

di Vincenzo Marino

Questa settimana in RoundUp: la proposta di David Leigh del Guardian, chiedere 2 sterline al mese agli abbonati alla banda larga del Regno Unito da devolvere ai giornali cartacei in base al loro numero di lettori; le critiche di PandoDaily, TechDirty, Forbes, GigaOM: idea impraticabile; come salvare il giornalismo? Charlie Beckett analizza problemi e possibili soluzioni. E infine, l'esordio della nuova piattaforma economico-finanziaria di The Atlantic, Quartz.

Un ‘canone di Internet’ per salvare i giornali

A pagina 32 del Guardian di lunedì scorso è stato pubblicato un articolo del Investigations Executive Editor della testata David Leigh dal titolo «Una tassa di 2 sterline sulla banda larga potrebbe salvare i nostri giornali». La proposta è semplice quanto provocatoria: spingere il governo a inserire un leggero rincaro nei costi di connessione degli abbonati internet del Regno Unito da devolvere ai giornali cartacei, sulla base della loro readership online. Se è vero che quello dei giornali è un vero e proprio servizio pubblico offerto alla cittadinanza, è la tesi, allora varrebbe la pena mutuare il modello del sussidio economico da quello del canone della tv di Stato - dal momento che i consumatori «non pagheranno mai per le notizie online», potendole consultare tranquillamente in modo gratuito e da fonti accurate che garantiscono un servizio di qualità, come il sito della BBC.

Il giornalismo è necessario alla democrazia, dunque, ma per la consultazione delle news in rete sono le connessioni a banda larga a essere necessarie: «la gente - spiega Leigh - paga volentieri questi soldi ad una manciata di società di telecomunicazioni, ma non paga nulla per il contenuto delle notizie che ricevono come risultato, la cui sopravvivenza è generalmente accettata come elemento fondamentale della democrazia». Dello stesso avviso, sul Guardian online, il columnist e professore di giornalismo della City University Roy Greenslade, che conclude però il suo post immaginando che la proposta, a livello strutturale e ideologico, sia destinata ad attirare numerose critiche.

«A big stupid idea»

Critiche che per la verità non sono mancate, in questi giorni. A partire da quella di Paul Carr su PandoDaily, che arriva a definire quella di Leigh una «big, stupid idea». Carr nota innanzitutto come la trovata, in linee generali, non sia del tutto nuova, dato che il mercato musicale ha già battuto per anni lo stesso tasto senza ottenere niente di concreto. Da segnalare poi, secondo l'autore, come lo strumento risulti politicamente compromesso, una misura molto «british» che dovrebbe rifarsi a quelle - già abbastanza impopolari - a causa delle quali i possessori di tv pagano attorno ai 200 euro al mese per la televisione pubblica, che a sua volta ha già - sebbene attraverso un altro medium - il dovere di «educare, informare, divertire».

Ma le perplessità arrivano anche dal punto di vista strutturale: ci sono giornali, come il New York Times, che Carr definisce brutalmente «less fucked», dato che il sistema paywall per il momento - come visto - pare funzionare, e che esistono e funzionano sul mercato altri portali esclusivamente online come Huffington Post e Gawker che già competono con le versioni digitali dei giornali (e coi giornali stessi) con contenuti totalmente gratuiti, quando non aggregati dalle stesse fonti tradizionali e riproposti in vesti nuove e più funzionali per il pubblico in rete.

Critiche simili giungono anche dalle pagine di Forbes, a firma Ewan Spence, che cita il sito sul quale scrive. «Noi abbiamo un numero significativo di lettori dal Regno Unito», precisa: come ci si comporta in casi del genere con i contributi proposti da Leigh, per esempio, se si considera che Forbes è una testata americana? E cosa succede se la cosa dovesse comunque funzionare, «quando l'industria musicale pretenderà il proprio canone? E così anche le librerie, che ne chiederanno una fetta perché le infrastrutture di Internet stanno avvantaggiando Amazon?».

«Giornale» è diverso da «giornalismo»

Su TechDirty Mike Masnick rincara la dose, evocando motivazioni di carattere più economico: è totalmente controproducente, spiega, finanziare attraverso tassazione un settore che il mercato sta già tagliando fuori da questo secolo, che non è più in grado di essere competitivo, senza portare in dote un'alternativa commerciale valida a lungo termine. Per riassumerla, come felicemente fatto da un lettore nei commenti, «una tassa di due sterline al mese sulle automobili non può salvare il nostro business delle carrozze». Mathew Ingram, su GigaOM, non si esime dall'entrare nel dibattito. L'errore dei promotori del Guardian, sostiene l'autore, è far aderire la nozione di «giornalismo» a quella di «giornale». Se è vero, infatti, che è il servizio giornalistico a garantire un argine democratico contro il potere, non sarà necessariamente lo stesso - di riflesso - per il mezzo utilizzato.

Ma non solo: quanto alle prospettive economiche, Ingram ricorda come esistano alternative informative no profit (come il Bureau of Investigative Journalism) che cercano, appunto, di reinventare il mestiere, con un altro sistema di sostentamento, su una piattaforma digitale - progetti «molto più meritevoli di fondi dei giganti del mercato mediatico, già detentori di grosse fette di mercato». Insomma, una prospettiva ad un primo impatto quasi logica e affascinante, ma che si imbatte, ad una più approfondita analisi, in una serie di problematiche tecniche, legislative, e economiche efficacemente - e sarcasticamente - riassunte dal collaboratore di Bloomberg News Allan Donald in un post sul suo tumblelog (tra le quali «Society depends on journalists producing news that few readers are actually all that interested in, quite honestly»).

Tassare internet per salvare il giornalismo, dunque, non può essere un'alternativa valida: «salvare il giornalismo è fine nobile e utile, e cercare soluzioni innovative a riguardo è iniziativa lodevole», conclude Ingram. «Ma tassare gli utenti online per sostenere un'industria in gran parte basata sulla stampa non è proprio la stessa cosa. Non ci si avvicina nemmeno».

«Come salviamo il giornalismo?»

Infine, è anche Charlie Beckett della London School of Economics a esprime delle perplessità sul ‘canone di Internet’, su Polis. Iscrivendole in un discorso più ampio, nel quale cerca di dare - o fornire gli elementi per - una risposta alla domanda «Come salviamo il giornalismo?». I tre euro al mese di sovrattassa non funzioneranno, spiega: «è un nonsense commerciale», una misura iniqua «che non funziona nell'interesse di un giornalismo efficiente e indipendente, come accade in posti come Francia e Italia» - e il riferimento, ovvio, è ai sussidi all'editoria.

Come invertire la tendenza, quindi? Beckett inquadra qualche punto: è necessario, dapprima, comprendere i problemi del mercato e della professione, che continua a produrre licenziamenti, disoccupazione e false speranze provocando, talvolta, una crisi nella qualità dei contenuti; fondamentale è anche prendere atto della crisi pubblicitaria, che affonda le proprie radici già in epoca pre-digitale, e che nei numeri delle inserzioni online non può ancora trovare motivi per essere ottimista; da qui, e da ultimo, il mercato digitale, in crescita ma ancora non in grado di supplire alla crisi, ormai irreversibile, della stampa tradizionale, avvolta dalla congiuntura economica, la concorrenza dei contenuti gratuiti, il lievitare dei costi di produzione e distribuzione.

Una delle chiavi, secondo l'autore, è percepire quanto prima i segnali di cambiamento, e adattarvisi: una partita che, stando all’articolo, adesso bisogna giocare su «qualità, quantità, velocità, intelligenza, disincanto, ricerca, arguzia. E dato che non possiamo essere tutti speciali, dobbiamo accettare la perdita di posti di lavoro e istituzioni». Una sorta di evoluzione della specie - come già descritto la settimana scorsa su The Atlantic da Bob Cohn - che investe, oggi, utenti che operano aldilà delle professioni del mondo dei media, «cittadini che non vogliono diventare giornalisti. Che hanno altro da fare. Ma che contribuiscono con un massiccio apporto di giornalismo 'accidentale'».

Ma qual è allora il futuro della professione giornalistica? Il saper assemblare e riproporre contenuti come solo i professionisti, coi propri mezzi professionali e personali, potrebbero: «In questo sovraccarico da informazioni c'è più bisogno, e persino domanda, di persone che siano in grado di fare ciò che da sempre i bravi giornalisti hanno sempre fatto: curare, filtrare, collegare, analizzare, confezionare, raccontare. Devono farlo diversamente. Magari dovranno stare su Twitter, o dovranno ricostruire graficamente dati complessi. Ma gran parte di tutto ciò risulta già familiare: esserci, raccontare, spiegare».

La sfida di Quartz


Questa però è stata anche la settimana del lancio di Quartz, la nuova piattaforma economico-finanziaria di The Atlantic nata con l'intento, principalmente, di offrire stile e funzionalità innovative alla classica consultazione delle notizie online. Un'ambizione espressa dallo stesso Editor in Chief Kevin Delaney in una lettera d’esordio: «Quartz è destinato a incarnare l'epoca in cui lo stiamo creando, come Wired negli anni '90, Rolling Stones nei '60, Fortune nei '30, e The Economist nel 1840».

E proprio la stampa economica d'élite come The Economist, come il Financial Times, è la tradizione giornalistica alla quale intende guardare, e con la quale vuole però competere battendo strade nuove: una forma-sito totalmente inedita, nella quale la gerarchia delle notizie cambia in base alle preferenze dell'utente (in grado di poter scegliere fra le news più popolari del momento, le più nuove o quelle ‘top’), con un'impostazione improntata alla filosofia mobile first, per restituire un'esperienza di navigazione molto simile a quella su tablet (qui un'efficace analisi di Sonderman su Poynter dei punti chiave del progetto).

Ma basterà a tracciare una nuova strada? Giudizi negativi, da più parti, non si sono fatti attendere: Hazel Sheffield, per la Columbia Journalism Review, ha fatto notare come a tanta novità estetica e concettuale faccia da contraltare la carenza - al momento - di contenuti originali, fra articoli aggregati, link esterni e post pubblicitari (qui un esempio). Cautela anche nelle parole di Joshua Benton, che ha introdotto il lancio di Quartz su NiemanLab: tra i difetti da annoverare, secondo l'autore, i non meno importanti problemi legati alla piattaforma JavaScript con la quale il sito è costruito, cosa che sembra non garantire una consultazione fluida per numerosi utenti - senza dimenticare il fatto che ad oggi non è possibile commentare gli articoli.

Un progetto - gratuito, senza paywall o appwall - che rappresenta, comunque, una sfida: sarà in grado di giocare sullo stesso terreno delle storiche holy cow del giornalismo finanziario, basato su un'utenza già abbastanza appagata dall'offerta attuale? E saprà imporsi come prodotto 'essenziale’? In sostanza, conclude Benton, «can its business model succeed?».